La lotta al cyberbullismo nel silenzio della scuola

Una scuola impreparata, a volte assente nella lotta al cyberbullismo. È lo scenario che emerge dal questionario di Lumsanews che ha interessato 246 studenti provenienti da istituti superiori di tutta Italia. Sei giovani su dieci, tra i 13 e 19 anni, dichiarano infatti che i propri istituti non si impegnano a sensibilizzare e a prevenire fenomeni di questo tipo.

La debolezza della scuola stride con quanto stabilito dalla recente legge 71, che prevede tra i suoi punti il ruolo centrale dell’istruzione nel contrasto e nella prevenzione del cyberbullismo. «Una norma che non ha grande efficacia. C’è ancora tanto da fare», dichiara Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva e massima esperta della materia.

Una situazione che Angela, studentessa di 18 anni, ha vissuto in prima persona. «Dalla mia preside e dai miei insegnanti non ho ricevuto il sostegno di cui avevo bisogno». Per cinque anni la ragazza ha dovuto subire da alcuni suoi coetanei vessazioni di ogni tipo. Non solo insulti, ma anche pedinamenti, minacce, chiamate anonime e incursioni a casa sua, dove alcuni ragazzi si divertivano a citofonare a notte fonda.

«Usano il mio cognome come intercalare per indicare la sfiga. Se incontro le persone per strada si toccano le parti basse», racconta Angela. Episodi di bullismo, ai quali di recente si è aggiunta la dimensione del cyber.

«Un ragazzo ha pubblicato una storia sul suo profilo Instagram, visibile a tutti, in cui esortava dei ragazzi piccoli a deridermi.  Sono venuta in possesso del video grazie a una mia amica, che ha filmato tutto», spiega la giovane. Prima del video i suoi amici le avevano inviato alcune chat di Whatsapp, in cui il suo nome veniva associato a insulti come “sua madre tr**a quella porta sfiga”. «Avevo delle prove in mano così ho trovato il coraggio e li ho denunciati. Pur essendo forte non posso più sopportare questi atti di violenza verbale, che ormai sembrano non avere fine».

Ma se da un lato Angela ha trovato sempre il sostegno di amici e famiglia, dall’altra ha ricevuto lo scarso sostegno della scuola. «Sono andata diverse volte in presidenza. Una volta mi hanno lanciato del cibo a scuola. Purtroppo non sono riuscita ad identificare i miei aggressori. Così la preside mi ha detto di non poter fare nulla senza prove e nomi».

Una situazione che non è nuova nel contesto scolastico. «Buona parte dei professori non vuole farsi coinvolgere in questo tipo di dinamiche, perché magari non le sanno risolvere e non hanno la sufficiente preparazione psicologica», spiega Anna Oliverio Ferraris. Così la mancata preparazione dei docenti o dei presidi si riflette nella scarsa fiducia dei loro studenti. Quasi il 40% degli intervistati dichiara, infatti, che non denuncerebbe alla scuola episodi di cyberbullismo, perché lo riterrebbe inutile.

«Hanno ragione – commenta la psicologa – molto spesso nelle scuole prevale la relazione verticale tra studente e professore. Non si considera, invece, il modello orizzontale, che sta alla base del benessere scolastico e migliora le performance intellettuali».

La legge sul cyberbullismo sembra indicare una via, ma non offre le risorse e i mezzi per percorrerla. Come previsto dal legislatore ogni istituto scolastico individua fra i docenti un referente con il compito di coordinare le iniziative di prevenzione e di contrasto del fenomeno.

Tuttavia solo il 42% degli studenti conferma un interesse diretto degli insegnanti. Il resto degli intervistati dichiara che l’impegno degli istituti passa per eventi organizzati (30%) o tramite personalità fuori dal contesto scolastico (17%).

Senza l’aiuto della scuola i ragazzi e le ragazze rischiano di rimanere soli. Una situazione che può aggravarsi quando manca il sostegno della famiglia: più della metà delle vittime intervistate non si confida con i genitori. «Un fenomeno frequente, che accade perché la persona si sente vittima due volte. In famiglia ci possono essere fratelli o sorelle che ti prendono in giro. Ma anche i genitori hanno un peso, perché, magari, rimproverano i loro figli di non sapersi difendere», spiega la psicologa.

«Non bisogna abbattersi, trovate il coraggio di raccontare!». È il consiglio che Angela si sente di dare ai suoi coetanei. «So che la denuncia non fermerà le dicerie. Ma io ho fiducia: quelle persone, che si sentono dei leader all’interno dei loro gruppi, verranno punite. E, forse, smetteranno di “istruire” altri ragazzi a prendermi in giro».

La legge 71 può essere, quindi, uno strumento utile per punire, ma non è ancora efficace per la prevenzione. Nella lotta al cyberbullismo serve soprattutto la formazione degli insegnanti e il contatto diretto con i ragazzi. «La scuola dovrebbe avere un programma didattico ed educativo in questo senso. Quando giro nelle scuole mi accorgo che gli studenti parlano tantissimo di cyberbullismo. Loro stessi trovano le risposte e le motivazioni dietro il fenomeno. I giovani mostrano capacità di ascolto, che, in questi casi vengono, sottovalutate», conclude la psicologa.

L’intervista audio ad Anna Olverio Ferraris, psicologa e autrice del libro “Piccoli bulli e cyberbulli crescono”