"Mistero del caveau"Lirio Abbate raccontail grande ricatto all'Italia

Dai misteri irrisolti a Mafia Capitale l'importanza civile del buon giornalismo

C’è un filo rosso che tiene insieme lo spettacolo “Racconto illustrato sul mistero del caveau”: è il giornalismo d’inchiesta che si sporca le mani per arrivare lì dove la magistratura non può. E non solo per la presenza sul palco del teatro Ambra Iovinelli di Lirio Abbate, colui che l’inchiesta Mafia Capitale l’ha pensata, creata e portata alla luce. Ciò che tiene insieme la narrazione è lo spirito di un giornalismo che non smette di interrogarsi sul malaffare, che continua a cercare la chiave di lettura di una realtà che i processi giudiziari non sono riusciti a decifrare.

“I giornalisti non emettono sentenze né condanne, cercano di mettere insieme dei pezzi di verità e li donano ai lettori”. Questo è il patto di fiducia che Lirio Abbate, vicedirettore de L’Espresso, stipula con la sua platea. Non si scavalcano sentenze né istruttorie legali, si presenta un affresco del “più grande ricatto mai fatto alla Repubblica”, ovvero il furto al caveau nella città giudiziaria di Piazzale Clodio a Roma. Un fortino inaccessibile, dove qualcuno invece è riuscito a penetrare senza scassinare alcun portone. Quel qualcuno è Massimo Carminati, estremista di destra legato ai Nar e alla Banda della Magliana, già accusato di aver partecipato alla strage di Bologna e all’omicidio di Mino Pecorelli (assolto poi per entrambe le accuse). Ciò che rende quello di Carminati “il colpo del secolo” è l’aver rubato, secondo l’accusa, documenti e carteggi legati alla storia irrisolta del nostro Paese. Dal periodo dello stragismo alla mafia, da quelle cassette di Piazzale Clodio sono stati sottratti faldoni e ricerche di magistrati, avvocati, funzionari. Questo furto serve ad Abbate per ritrarre la Roma di oggi, che è lo specchio dell’intero Paese: una città impaurita e sotto lo scacco del malaffare.

L’intero racconto del giornalista è supportato dalle deposizioni che l’ex Nar ha rilasciato nell’aula processuale del carcere di Rebibbia, dove attualmente è detenuto con l’accusa di associazione a delinquere semplice (l’aggravante mafiosa è caduta). Non solo: ci sono testimonianze di Pm che hanno lavorato al caso, di collaboratori di giustizia e di giornalisti che nel 1999 (anno del colpo al caveau) hanno battuto per primi la notizia. Un continuo intreccio tra giustizia e giornalismo d’inchiesta, dove quest’ultimo arriva a decifrare la realtà lì dove non c’è alcuna prova per una condanna giudiziaria. Perché la corruzione e l’intimidazione, ripete Abbate, non si combattono solo per vie legali; ma dove non c’è l’appiglio penale per una condanna in tribunale c’è il dovere della denuncia giornalistica. La conclusione dello spettacolo è affidata alle parole di Giuseppe Fava, giornalista siciliano assassinato da Cosa Nostra: “Ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società.”

Giulia Torlone

Aquilana di nascita, si è laureata in Italianistica e vive a Firenze. Ha lavorato nel settore della cooperazione internazionale occupandosi di ufficio stampa. Redattrice su temi di diritto alla cittadinanza e giustizia sociale, ha concentrato il suo lavoro sui Paesi del bacino del Mediterraneo.