Quei terribili 55 giorni e i misteri ancora irrisolti

Nella storia dell’Italia repubblicana non si è mai verificato un delitto politico che abbia presentato tanti risvolti oscuri come quello di Aldo Moro. Uno degli episodi più tragici e misteriosi della nostra storia che, ancora oggi, è un caso irrisolto perché dopo cinque indagini giudiziarie, quattro processi e una commissione d’inchiesta ancora non è stata fatta luce sul buio di quei 55 giorni.

IL MISTERIOSO LAVORO DEI COMITATI DI CRISI

Per fare fronte alla crisi causata dal rapimento del presidente della DC, il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, istituì due comitati. Uno tecnico-politico-operativo, presieduto dallo stesso Cossiga di cui facevano anche parte i comandanti di polizia, carabinieri e guardia di finanza, oltre ai direttori del SISMI e del SISDE, al segretario generale del Cesis, al direttore dell’UCIGOS e al questore di Roma. Un comitato informazione, formato dai responsabili dei vari servizi: CESIS, SISDE, SISMI e SIOS.

Fu creato anche un terzo comitato non ufficiale: il comitato di esperti. Della sua esistenza si seppe solo nel 1981, quando Cossiga ne rivelò l’esistenza alla Commissione Moro, senza però svelare le attività.  Di questo organismo facevano parte, tra gli altri: il criminologo Franco Ferracuti e il dg dell’Istituto per l’Enciclopedia italiana Vincenzo Cappelletti. Si scoprirà, anni dopo, che molte delle persone riunite intorno a quel tavolo erano iscritte alla loggia massonica della P2.

STEVE PIECZENIK, UNA FIGURA CHIAVE DEL CASO MORO

“La decisione di far uccidere Moro non venne presa alla leggera. Cossiga mantenne ferma la rotta e così arrivammo a una soluzione. Con la sua morte impedimmo a Berlinguer di arrivare al potere e di evitare la destabilizzazione dell’Italia e dell’Europa”. Così raccontò Steve Pieczenik, membro del terzo comitato e figura chiave del caso Moro che, dopo 30 anni, ruppe il silenzio rivelando molte verità nel suo libro “Abbiamo ucciso Aldo Moro”. Pieczenik fu coinvolto in qualità di psicologo dell’ufficio antiterrorismo del Dipartimento di Stato statunitense, esperto in casi di rapimento. L’importanza del suo coinvolgimento si comprende considerando che pochi mesi prima il presidente americano Jimmy Carter aveva decretato che i servizi di informazione statunitensi non potessero collaborare con governi stranieri in casi di terrorismo, salvo che non fossero in gioco interessi di sicurezza e pericolo per gli USA.  Nel libro Pieczenik rivelò quale fu il suo reale compito: “Guadagnare tempo. Ma mi resi conto che avrei dovuto sacrificare l’ostaggio per la stabilità dell’Italia. Abbiamo dovuto strumentalizzare le BR per farlo uccidere”.  Le sue parole, però, furono ampiamente ridimensionate quando il pm Luca Palamara lo interrogò.

IL FALSO COMUNICATO NUMERO 7  

Il 18 aprile fu ritrovato il comunicato numero 7 delle BR: annunciava la morte dell’ostaggio e la sua sepoltura non lontano dal lago della Duchessa. Anche se agli inquirenti il volantino apparve poco credibile, perché scritto con linguaggio e strumenti inconsueti per i Brigatisti, furono fatte partire numerose forze dell’ordine per il luogo della presunta sepoltura. L’ordine di sospendere le ricerche fu dato solo due giorni dopo, quando le BR fecero trovare le copie del vero comunicato, dimostrando che quello diffuso in precedenza era falso.

Le forze dell’ordine durante le ricerche al lago della Duchessa

A scrivere il falso comunicato fu Antonio Chichiarelli, falsario legato alla Banda della Magliana e confidente dei servizi segreti. Alla sua figura è legato un altro mistero della storia italiana: il maxi colpo alla Brink’s Securmark del 1984 nella quale pare fosse il capo del commando dei banditi. Nel caveau svaligiato furono ritrovati alcuni documenti battuti con gli stessi caratteri con cui era stato compilato il falso comunicato e con al margine appunti scritti a mano da Chichiarelli.  Dopo la rapina miliardaria il falsario fu ucciso nel settemBre di quell’anno in circostanze mai chiarite.

Nel suo libro Pieczenik ha raccontato di aver partecipato una riunione del comitato dove fu deciso di creare il falso comunicato. Lo scopo era preparare l’opinione pubblica al probabile decesso di Moro. Le BR interpretarono quel comunicato come un’impossibilità di effettuare scambi di prigionieri con lo Stato. Lo rivelò Enrico Fenzi ai giudici: “Secondo le BR, il comunicato era il segnale chiaro e inequivocabile che nessuna trattativa era possibile”.

IL COVO DI VIA GRADOLI: TRA COINCIDENZE, LEGAMI MISTERIOSI E SEDUTE SPITIRICHE

Il giorno stesso della diffusione del falso comunicato fu scoperto anche il covo dei brigatisti in Via Gradoli. La scoperta, avvenuta a causa di una perdita d’acqua per cui erano stati chiamati i vigili del fuoco, si rivelerà essere invece causata da un rubinetto della doccia lasciato aperto, appoggiato su una scopa e con la cornetta rivolta verso il muro, quasi a voler far scoprire il covo, che era usato abitualmente dai Brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani.

Barbara Balzerani e Mario Moretti

Dopo il blitz vennero resi noti ulteriori fatti molto particolari.  Lo stabile in cui si trovava l’appartamento era stato già perquisito il 18 marzo nell’ambito di un controllo della zona, ma non essendoci nessuno dentro l’appartamento, gli agenti non lo controllarono. La vicina di casa, Lucia Mokbel, avrebbe consegnato una comunicazione destinata a Elio Cioppa, vice capo della Squadra Mobile romana, in cui affermava che la sera prima del rapimento aveva sentito dei rumori anomali provenire dall’appartamento, ma le forze dell’ordine negarono di averlo ricevuto. Nella stessa via, inoltre, prima e dopo il sequestro, erano presenti numerosi appartamenti utilizzati da agenti e aziende di copertura al servizio del SISMI.

Tra le vicende legate all’appartamento di via Gradoli è da menzionare la seduta spiritica a opera di Romano Prodi, Alberto Clò e Mario Baldazzarri per chiedere agli spiriti di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira dove si trovasse la prigione di Moro. Gli spiriti formarono anche la parola Gradoli.  Il capo della polizia Giuseppe Parlato ritenne l’informazione attendibile e organizzò un blitz armato nel borgo di Gradoli, vicino Viterbo, senza però ottenere nessun risultato.  La vedova di Moro dichiarò di aver più volte indicato agli inquirenti l’esistenza di una via Gradoli a Roma, senza che questi estendessero le ricerche anche lì. Questa circostanza è stata energicamente smentita da Francesco Cossiga.

IL COVO DI VIA MONTALCINI, FORSE NON FU L’UNICA PRIGIONE DI MORO

Secondo la ricostruzione ufficiale, il covo delle Br di Via Montalcini è stata la prigione di Moro per tutti i 55 giorni del sequestro. Durante la carcerazione, vissero con l’ostaggio Anna Laura Braghetti, proprietaria dell’appartamento e il suo fidanzato l’ingegnere Luigi Altobelli, che era in realtà il brigatista Germano Maccari.  Maccari per anni negò di essere Altobelli, ma alla fine con una clamorosa confessione svelò la verità dichiarando di essere lui: “Sì, sono io l’ingegner Altobelli, il quarto uomo della prigione di Moro”.

Ma anche sul covo di Via Montalcini ci sono molte incongruenze. Sembra ormai probabile che via Montalcini non sia stato l’unico covo a ospitare Moro. Carlo Alfredo, fratello di Moro, basandosi sulla sabbia trovata sul cadavere propose una teoria secondo la quale l’ultima prigione sarebbe stata situata nei pressi di una località marina. Secondo lui, poi, le conclusioni dell’autopsia sul corpo, che fu trovato in buone condizioni fisiche, lascerebbero supporre che Moro abbia avuto una certa libertà di movimento, condizione lontana da quella che si sarebbe avuta nei pochi metri quadrati del covo di via Montalcini.

IL GIALLO SUL RITROVAMENTO IN VIA CAETANI

Il cadavere fu ritrovato il 9 maggio 1978 in una Renault 4 in via Caetani, in pieno centro di Roma. Per molti anni, fino alla confessione di Mario Moretti, si pensò che a sparare a Moro fosse stato Prospero Gallinari.

In una foto di archivio il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in una renault a via Caetani a Roma. Era il 9 maggio 1978. FAVA /ANSA

Ancora oggi si hanno dubbi sull’ora dell’uccisione di Moro e del suo ritrovamento. Il tutto nasce dal fatto che la telefonata brigatista di rivendicazione dell’omicidio arrivò alle ore 12,30, ma due artificieri dichiararono che alle 11 in punto giunsero in via Caetani e vi trovarono Francesco Cossiga. Questa versione dei fatti fu smentita da due testimoni.  Secondo l’autopsia Moro fu ucciso tra le 9 e le 10 della mattina stessa. L’orario però è incompatibile con la ricostruzione data dai brigatisti per cui l’esecuzione sarebbe avvenuta tra le 7 e le 8.  Inoltre alcuni testimoni affermarono che la macchina era stata portata in via Caetani nelle prime ore del mattino e abbandonata fino a quando gli assassini ritennero opportuno avvertire. Altre testimonianze, invece, affermarono di aver visto la Renault parcheggiata soltanto intorno alle 12,30.