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Vent’anni senza Kubrick, l’inventore del Duemila

di Giulio Seminara25 Febbraio 2019
25 Febbraio 2019

Scelse un pregiudicato reduce dal Vietnam e ne ricavò il leggendario sergente Hartman di Full Metal Jacket. Disse no ai Beatles che lo volevano regista di un “loro” Signore degli anelli, litigò con Stephen King per Shining, gareggiò con Federico Fellini e fece esplodere un forno a microonde mettendoci dentro delle uova crude. E quasi sempre senza uscire di casa. A vent’anni dal 7 marzo 1999, data della morte, il mistero chiamato Stanley Kubrick, per alcuni il più grande cineasta del Novecento, resta ancora fitto e impenetrabile, così ricco di silenzio, il suo, e leggende metropolitane, degli altri.

Emilio D’Alessandro è un ex meccanico e giardiniere ciociaro. Nell’inverno del 1971 Emilio, residente a Londra da pochi anni e pilota part time in un autodromo, colpì Kubrick consegnando con grande puntualità un enorme fallo di porcellana al set di Arancia Meccanica. Il regista lo assunse come autista e assistente. Nacque una profonda amicizia tra due persone diversissime, ma complementari, durata circa trent’anni e interrotta solo dalla morte del maestro.

La strana coppia è protagonista di “Stanley Kubrick e me” (Il Saggiatore, 2012), libro di memorie scritto dallo stesso D’Alessandro con Filippo Ulivieri, responsabile del principale archivio dedicato al maestro. Il racconto, ricco di aneddoti, è un inedito sul Kubrick uomo. E svela il lato privato e tenero di un artista geniale e solitario ma capace di grande generosità e gesti d’affetto. Intervistato da Lumsanews, Ulivieri racconta come Kubrick dicesse sempre “O ti importa o non ti importa” e questo valeva per tutto, sia sul set che a casa, perché nella sua vita niente era lasciato al caso. Il suo rigore mentale infatti abbracciava ogni attività: dalle VHS fatte spedire dalla sorella con le partite di football americano registrate alla furia distruttiva contro il primo film, Paura e Desiderio (1953), odiatissimo dal regista, che provò anche a farlo sparire.

Sicuramente Kubrick non era un uomo facile ma neanche il regista crudele su cui si è favoleggiato. Le dieci ore di addestramento quotidiano impartite agli attori di Full Metal Jacket? “Una storiella, invece è vero che il reduce del Vietnam Lee Ermey convinse Kubrick a promuoverlo da consulente a sergente Hartman”.

Ai nostri microfoni, Alberto Crespi cita D’Alessandro che gli faceva da interprete con Fellini. Il regista de La Dolce Vita “era un mito per Kubrick che a suo modo lo sfidò con Barry Lyndon, ipotetico rivale di Casanova”. Crespi ricorda la sua ammirazione per Piero Tosi, costumista di Visconti “che però non prendeva l’aereo e a fare Barry Lyndon mandò la sua pupilla Milena Canonero, già con Kubrick in Arancia Meccanica, le cui musiche dovevano essere di Morricone che rifiutò”.  Il regista adorava il doppiaggio di Giancarlo Giannini, voce di Ryan O’ Neal e Jack Nicholson. Per Full Metal Jacket disse “we need a young Giannini”. Ascoltava tutti i provini dei doppiatori italiani, pur senza capire nulla. Ma l’italianissimo “il mattino ha l’oro in bocca” dello scrittore folle di Shining lo scelse lui.

Abituati ad artisti schierati su tutto, ignoriamo il pensiero politico di Kubrick. Per Ulivieri il cineasta era un “conservatore liberale ben consapevole che l’uomo spesso regredisce alla natura animale”. Per Crespi “uno che osserva gli uomini come fossero cavie da laboratorio non è né di destra né di sinistra”. Ma Il Dottor Stranamore, Arancia Meccanica e Barry Lyndon “mostrano il potere al lavoro, lo deridono e lo smitizzano, per questo sono profondamente politici”. Certamente non frequentava i potenti dell’Academy, gli zero Oscar vinti lo dimostrano.

Che cosa accomuna le trincee di Orizzonti di gloria al lecca lecca a forma di cuore di Lolita? E cosa lega l’ultraviolenza dei drughi alla messa fuori uso del computer Hal? L’analisi della natura umana senza ideologie e romanticismo e l’uso della telecamera come lente d’ingrandimento su creature capaci di tutto, nelle più svariate situazioni. E la regia elegante e raggelata, i rapporti di forza, l’amore come gelosia, i rischi del futuro e ovviamente la violenza.

Proprio quest’ultima con Arancia Meccanica (1971) ha scatenato la polemica: possibile mostrare uno stupro in modo “spettacolare” con canto e balletto? Fu scandalo e censura. Basta dire che la prima sulla tv pubblica italiana di questo capolavoro risale appena al 2007. Peccato che il film fosse proprio un atto d’accusa alla violenza, dei singoli e dello Stato, e alla censura-repressione tramite la forza. Nella consapevolezza che l’estetica non deve essere per forza etica, altrimenti anche ascoltare Beethoven può diventare un incubo.

Ulivieri dice di aver trovato 55 progetti iniziati e mai conclusi. Crespi cita The Aryan Papers che doveva raccontare l’Olocausto, tema caro all’ebreo americano, ma che fu “bruciato” dallo Schindler’s List di Spielberg. E proprio quest’ultimo si incrocerà ancora con Kubrick quando, dopo la morte del maestro, rileverà il progetto poi diventato Intelligenza Artificiale. Clamoroso il rifiuto del regista ai Beatles che volevano dirigesse un “loro” Signore degli anelli in cui Paul sarebbe stato Frodo, Ring il fedele Sam, George Gandalf e John Gollum.

A vent’anni dalla scomparsa di Kubrick non ci sono eredi e neanche un messaggio. Ma una grandiosa opera che è una carrellata, quasi documentaristica, sulla natura umana e sul suo lato oscuro. Una lezione inquietante, un “come eravamo” attraverso i secoli, impastato di guerra, gelosia, follia e violenza, dalle arene dell’antica Roma alle mille luci di New York, passando per lo spazio profondo. Perché l’uomo in tutte le epoche e luoghi è sempre se stesso, una splendida macchina impazzita, capace di tutto, figuriamoci il male. Ce lo dice Kubrick. Che questa dura lezione sia meravigliosa da guardare è la meraviglia del cinema.

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