“Confesso che ho visto”. L’orrore ucraino negli occhi di quattro testimoni

La morte, la distruzione, la fuga, gli abbracci. E ancora: genitori che si separano dai figli, mariti mandati al fronte e mai più tornati, bambini rimasti orfani, uomini e donne senza più casa, lavoro e futuro. È la tragedia dell’Ucraina un anno dopo. Una tragedia con tante facce, che possono essere raccontate come in una specie di Rashomon.

C’è Maria, un’ucraina costretta a scappare dalla sua città per sfuggire alle bombe, c’è padre Khamulyak, che dall’inizio del conflitto offre assistenza spirituale a chi combatte e a chi rimane a casa a soffrire per i propri cari al fronte, o Vladislav Svitsa, un volontario che con la sua associazione fornisce ai connazionali beni di prima necessità. E Ilario Piagnerelli, un giornalista di guerra che da febbraio 2022 si destreggia tra la vita al fronte e il suo lavoro. Ognuno di loro, ogni giorno, con forza di volontà e d’animo, sostiene gli ucraini aggrediti con progetti solidali o con il semplice ma cruciale racconto della verità contribuendo a ricomporre, un pezzettino alla volta, quel mosaico chiamato umanità.

LA RIFUGIATA

Maria, insieme ai suoi due figli, è dovuta scappare da Severodonetsk, ora distrutta dai bombardamenti: uno dei tanti esempi con cui la comunità italiana ha offerto il proprio sostegno al popolo ucraino

“Il 24 febbraio io e mio figlio di quattro anni siamo usciti prestissimo per andare all’asilo nido. Eravamo all’aperto quando ci sono state le prime esplosioni. Siamo subito corsi a casa. La sera siamo scesi nel seminterrato e abbiamo passato lì la notte.

“Il giorno dopo ci siamo spostati in un rifugio improvvisato in una scuola vicina, un posto più preparato e attrezzato per queste emergenze. Poi il settimo giorno una granata ha colpito la scuola. Eravamo più di duecento persone insieme e se la granata fosse caduta poco più vicina a noi il rifugio sarebbe diventato una fossa comune. Così abbiamo deciso di fuggire dalla città.

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Il rifugio nella scuola a Severodonetsk

“Finalmente dopo un viaggio faticoso siamo arrivati a Roma grazie a un’associazione che si occupa dei profughi e alla Croce Rossa, dove viviamo ancora oggi. Mio figlio più grande studia online e segue anche corsi di italiano gratuiti. Il più piccolo va all’asilo. Sono immensamente grata all’Italia per averci ospitato. Abbiamo alloggio e cibo gratuito.

“Non voglio che i miei figli vadano in guerra. Mio marito è al fronte per difendere il nostro Paese. Penso che nessuna donna che mette al mondo dei figli e che conosce il valore della vita vorrebbe mai per sé e per i suoi cari tutto quello che sta accadendo ora in Ucraina. Sono stanca di correre avanti e indietro dal 2014, di sentire il rumore delle esplosioni. Forse mi basterebbe anche uno spazio di due metri dove nessuno mi possa toccare. Credo di non aver bisogno di nient’altro per essere completamente felice. Ma dico credo perché si vive solo l’oggi, giorno per giorno”.

IL VOLONTARIO

Vladislav Svitsa allo scoppio del conflitto ha creato una fondazione e ora viaggia in tutta Europa per rispondere alle esigenze del suo popolo

“La prima cosa che ho fatto quando è iniziata la guerra è stata andare al commissariato militare per arruolarmi. Ma all’inizio venivano presi solo quelli che avevano esperienza e sono stato rifiutato. Quindi, mi sono offerto come volontario.

“In quel periodo c’era un problema logistico molto grande: un enorme flusso di persone lasciava le città, i treni erano sovraffollati, le persone senza auto non avevano modo di spostarsi. Così a Leopoli abbiamo trovato un magazzino dove fin da subito sono stati portati beni di prima necessità dall’Europa.

“Alcuni giorni dopo sono andato a Dnipro per portare aiuti umanitari e medicinali a un’unità militare. Arrivato lì ho saputo che a Mariupol c’era una famiglia di tre persone, padre madre e una figlia piccola, che aveva bisogno di fuggire. All’epoca non c’erano informazioni sulle occupazioni russe, ma ho deciso lo stesso di andare. La sera del 28 febbraio sono arrivato a Mariupol e ho preso la famiglia. Al viaggio di ritorno verso ovest sentivamo le esplosioni ovunque. Il giorno dopo abbiamo saputo che Mariupol era ‘finita’, i russi avevano circondato la città e che non c’era modo di uscire dalla zona. Ci siamo salvati per poco.

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Vladislav con una famiglia che ha aiutato a fuggire

“Io e i miei amici abbiamo creato la nostra fondazione di beneficenza: VOLUNTEERS.UA FOUNDATION. Dall’inizio della guerra ho trasportato più di 40 tonnellate di aiuti umanitari. Abbiamo viaggiato molto all’estero per acquistare i generatori e le batterie che sono stati inviati ai militari e agli ospedali. Vorremmo produrre protesi per i bambini e per i soldati rimasti invalidi a causa della guerra e stiamo sviluppando una macchina drone per disinnescare le mine. Qualsiasi tipo di assistenza ai civili e ai militari è essenziale. Dopo la liberazione di Kherson a novembre la gente aveva un disperato bisogno di vestiti per l’inverno, arrivati con un minibus, che si è svuotato in cinque minuti.

“Fin dai primi giorni della guerra abbiamo portato tanti connazionali nei Paesi dell’Unione. Adesso vi devo lasciare, c’è un autobus che sta partendo da Leopoli, porterà ottanta persone in Norvegia, gratuitamente. Grazie all’Europa”.

IL SACERDOTE

Padre Yuriy Khamulyak, sacerdote della Chiesa greco-cattolica ucraina, sostiene spiritualmente chi combatte e sta vicino alle famiglie dei giovani soldati al fronte

“Prima vivevo sempre in parrocchia a Leopoli. Ora un po’ lì e un po’ al fronte: la mia vita è divisa a metà. Vado nelle zone di guerra, con i militari, per portargli tutto quello di cui hanno bisogno: medicine, cibo e vestiti. Il cappellano, prima di tutto, ascolta, sostiene, consola chi combatte. L’altro compito importante è stare vicino alle famiglie dei ragazzi che sono al fronte. Al fronte c’è sempre l’opportunità di celebrare la messa, confessare, dare la comunione. Qualche volta battezziamo o celebriamo un matrimonio. Le condizioni sono estreme, ma nonostante tutte le difficoltà, la vita continua anche qui.

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Padre Yuriy Khamulyak al fronte a Zolote, nell’oblast’ di Luhans’k

“Un giorno un ufficiale mi ha detto di andare a visitare un soldato in ospedale, rimasto gravemente ferito in missione. Il ragazzo aveva solo diciotto anni, aveva bisogno di una sedia a rotelle. L’ho chiamato e gli ho detto che ne avevo trovata una. Poi però ho scoperto che le sue mani erano ferite e gliene serviva una elettrica, ma non sarei riuscito a trovarla in poco tempo. Qualche minuto dopo un mio amico – che non sapeva del ragazzo in ospedale – mi ha chiamato per dirmi che una sedia a rotelle elettrica era stata portata in chiesa. Questo per un credente è un segno del Signore.

“Tutti siamo cambiati. Non solo io. Non sarà come prima, se sarà peggio o meglio non lo sa nessuno, ma sarà tutto diverso. Questa è un’esperienza molto amara e difficile, molti ragazzi sono morti, altrettanti sono menomati fisicamente e psicologicamente. Tantissimi bambini sono rimasti orfani… Un giovane padre ha combattuto per dieci giorni ed è morto. Ho incontrato la vedova e i due bimbi. Lei mi ha raccontato che la figlia più grande, cinque anni, ha raccolto tutte le cose di suo padre intorno a sé, ci si è appoggiata sopra e ha detto: ‘Come possiamo pregare Dio ora, se ogni giorno gli chiedevamo che nostro padre tornasse vivo? Ora non c’è più’. Di situazioni del genere ce ne sono tante ma sono sicuro che il Signore ci aiuterà a superare tutto questo, perché il Signore è sempre dalla parte della verità”.

IL GIORNALISTA

Ilario Piagnerelli, giornalista di Rai News 24, è tra i pochi ad aver documentato il massacro di Bucha, smentendo la tesi di chi sosteneva che si trattasse di una semplice montatura

“Quando sono riuscito ad entrare a Bucha ho visto davanti a me un vero e proprio massacro: 410 corpi erano stati appena ritrovati in una fossa comune all’interno del cortile di una chiesa. Tra i poveri resti emersi ho riconosciuto indumenti femminili e una ciabatta rosa. Accanto alla fossa solo due persone avevano avuto una degna sepoltura.

“Dopo la liberazione, in città c’era una gioia immensa tra gli abitanti, mista però all’immenso dolore per i morti, per i cadaveri ancora per strada. Mi è rimasta impressa l’immagine di una donna che segava gli alberi del parco pubblico perché non c’era più neanche la legna da ardere e ovviamente non c’era corrente, non c’era gas, né acqua. Quella città sotto occupazione era stata riportata all’età della pietra. Lì ho visto davvero l’orrore.

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Ilario Piagnerelli, giornalista di Rai News 24

“Proseguendo, ho visto un’auto schiacciata da un carro armato russo con all’interno il corpo senza vita del guidatore. Tutta la città era cosparsa di veicoli distrutti e bruciati, molti appartenevano a civili che avevano provato a fuggire e che, invece, erano stati uccisi a bruciapelo dai russi. Appena sono arrivato, ho visto il cadavere di un uomo che aveva provato a scappare in bicicletta, aveva il cranio aperto, frantumato da un colpo d’arma da fuoco. C’era anche un’auto, sulla portiera c’era una scritta rudimentale: ‘Bambini’ e un drappo bianco. Il veicolo era completamente distrutto.

“La città era semidistrutta, la gente mi ha raccontato di avere vissuto all’interno di case bombardate o di scantinati per paura degli attacchi. Quando avevano bisogno di fare scorta di cibo o acqua, uscivano con una fascetta bianca al braccio e con le mani in alto per paura di essere sparati. La città era cosparsa di scritte contro l’Ucraina, come ‘Ucraina ecco la tua Nato’.

“Le persone, mi hanno raccontato gli abitanti, chiedevano ai russi di portare i morti al cimitero per seppellirli e loro rispondevano che, se l’avessero fatto, al cimitero ci sarebbero finiti loro, che i morti dovevano essere sotterrati come i cani.

“A Bucha sono stati commessi crimini di guerra innegabili. Mi sono ritrovato di fronte a un vero e proprio campo di battaglia: la città era cosparsa di granate non ancora esplose, carri armati russi inceneriti, mani e gambe di corpi morti che spuntavano dal terreno, cani che andavano in giro con in bocca pezzi di carne umana. I cadaveri di fronte ai miei occhi non parlavano di esplosioni, ma di esecuzioni”.