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Gioco sporco, se i videogame diventano il bancomat della criminalità

di Roberto Abela28 Ottobre 2025
28 Ottobre 2025
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Nell’economia dei videogiochi esiste un flusso costante di denaro. Piccole transazioni che generano miliardi di ricavi. Servono per acquistare le monete virtuali da spendere durante il gameplay. Con questi gettoni digitali, si sbloccano armi leggendarie o le cosiddette “skin”, le personalizzazioni estetiche che cambiano l’aspetto di un personaggio o di un oggetto. Ma sotto questa superficie si nasconde un’attività meno ricreativa. Mentre milioni di gamer si sfidano su Fortnite o Counter Strike: GO, i vivaci marketplace delle piattaforme diventano il parco giochi preferito dei cybercriminali dediti al riciclaggio di denaro.

Quanto vale il mercato degli acquisti in-game

Nell’industria dei videogiochi le microtransazioni sono diventate un modello di business fondamentale. Secondo un report della società di consulenza informatica americana AppSamurai, questo mercato ha generato nel solo 2025 circa 121,7 miliardi di dollari di entrate. Un aumento del 368% rispetto ai 26 miliardi del 2015. Oltre agli store ufficiali, sono nate piattaforme di terze parti che consentono di rivendere gli oggetti in cambio di soldi reali (real money transfer). È sfruttando questi mercati secondari che, come dimostra uno studio condotto da due ricercatori dell’università inglese di York, Dan Cooke e Angus Marshall, i criminali trovano terreno fertile per il riciclaggio.

I precedenti: dal caso Valve ai V-bucks di Epic Games

Il fenomeno, conosciuto come micro-laundering, ha costretto in passato le software house a intervenire sui propri market. È emblematico il caso di Valve, azienda statunitense di distribuzione di videogiochi. Nel novembre 2019 Valve bloccò la compravendita di chiavi per le loot box su Counter Strike: GO. Si tratta di pass che consentono di aprire casse premio dal contenuto casuale. La società sospettava che “quasi tutte le chiavi digitali rivendute sul mercato fossero frutto di frode”. Già nel 2016 l’azienda era intervenuta, bloccando l’acquisto di articoli usati come fiches per il gioco d’azzardo illegale. Per questo motivo, Belgio e Olanda nel 2018 hanno vietato le loot boxes e i Fifa points, le monete che, sul noto videogame, consentono di aprire pacchetti virtuali di calciatori. 

Un altro caso riguarda Epic Games, la casa madre di Fortnite. Tra il 2019 e il 2020, la società ha rafforzato la sicurezza dello store online del celebre videogioco. Un’inchiesta dell’Independent – con la società israeliana di cybersecurity Cybersixgill – svelò infatti un giro di riciclaggio: criminali usavano dati di carte di credito rubate per acquistare V-bucks, la valuta virtuale del gioco, per poi rivenderli a prezzo scontato sul dark web, ripulendo di fatto il denaro.

Il parco giochi dei riciclatori

Nel paper Money laundering through video games del settembre 2024, Cooke e Marshall hanno analizzato, per cinque giorni, oltre un milione di transazioni sul market Steam di Counter-Strike: Global Offensive. Nello stesso periodo, sono stati identificati 484.080 venditori e 480.655 acquirenti unici. Lo studio evidenzia come i mercati secondari dei videogiochi creino condizioni favorevoli per il riciclaggio. Analizzando la frequenza di cinque parametri – gli identificativi anonimi del venditore e del suo acquirente, il valore dello scambio, la marca temporale della transazione e l’identificativo dell’oggetto venduto – i due ricercatori hanno isolato alcuni movimenti sospetti. Un singolo oggetto risultava scambiato oltre 70 mila volte, pari al 14,1% di tutte le transazioni. Anomalo per un mercato dove gli scambi dovrebbero essere distribuiti su centinaia di articoli diversi. 

Anche l’attività degli utenti è risultata sospetta: il venditore più attivo ha effettuato 6.565 operazioni (1,3% del totale), più del doppio del secondo. Un fetta minuscola degli utenti (lo 0,002%) ha generato una quota enorme di transazioni  (il 5,2% dei pagamenti).  Quattro profili sono apparsi nella top 10 sia dei venditori che degli acquirenti e uno di loro era il più attivo in tre delle dieci transazioni più comuni (compratore, venditore, oggetto e valore, di fatto, coincidevano). Un campanello d’allarme sulla possibile attività di stratificazione (layering): una fase intermedia del processo di riciclaggio, dove si punta a effettuare molteplici transazioni per rendere più difficile il tracciamento del denaro sporco. Proprio come avverrebbe, nel modo più tradizionale, trasferendo i proventi illeciti su più conti bancari. I dati della ricerca, da soli, non provano il riciclaggio, ma evidenziano la necessità di ulteriori indagini.

Un fenomeno in crescita: il ruolo dell’intelligenza artificiale

Eugenio Kim Cerra, esperto di cybersicurezza con esperienza decennale, conferma come la struttura dei marketplace esponga proprio al rischio di layering: “Il limitato livello di tracciabilità e la facilità di creare identità digitali agevolano questa fase del riciclaggio”. Ma in che modo? “Si occulta la provenienza illecita del valore scambiato tramite gli asset, che poi vengono convertiti in criptovalute, eludendo gli intermediari finanziari tradizionali”. Il settore non è mai stato immune. “Alla fine degli anni ‘90 era in voga il gold farming: si usavano account multipli per l’accumulo di valuta o oggetti virtuali, anticipando il concetto di asset digitali come strumenti di conversione economica in un mercato parallelo”. Le nuove tecnologie hanno aggravato la situazione. “Con l’avvento dei deep fake e dell’Ia, bypassare i sistemi di identificazione digitali è diventato molto più semplice. Se fino a pochi anni fa servivano competenze tecniche, oggi bastano pochi prompt e un modello generativo. La falsificazione è diventata accessibile quanto il gioco stesso”. 

A sfruttare queste falle non sono solo i singoli utenti, ma anche gruppi criminali: “Non mancano casi di organizzazioni strutturate, che hanno sfruttato questi meccanismi su scala industriale. Gruppi come APT41 (Winnti), legato alla Cina, hanno compromesso società di gaming per condurre operazioni di spionaggio industriale e frodi finanziarie, mescolando attività statali e profitto privato”, continua.

Le software house, però, non sembrano intenzionate a mettere in campo delle contromisure più stringenti. Secondo Cerra, “per una piattaforma che genera traffico e milioni di utenti – reali o non – tutto ciò si traduce in valore economico. La priorità resta mantenere alti i numeri e l’engagement: più utenti, più ricavi. Introdurre controlli rigorosi o processi di verifica significherebbe creare barriere che riducono la fluidità dell’esperienza, rallentano la crescita e incidendo sui profitti”. Il giro d’affari del riciclaggio è stimato nell’ordine dei miliardi di dollari e, con le nuove tecnologie, il problema è destinato a crescere.

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