Greenwashing, se l’impresa si spaccia per sostenibile

Materiali ecosostenibili, biocarburanti a emissioni zero, cibi biologici, prodotti biodegradabili. Sono solo alcuni dei claims che quotidianamente bombardano il consumatore medio tramite campagne pubblicitarie su ogni media. La lotta al cambiamento climatico è uno dei temi più caldi che campeggia sulle agende di tutti i Paesi leader, e le aziende – le stesse che ci hanno condotto a un punto di non ritorno – lo hanno compreso. Restituire a clienti e investitori un’immagine rispettosa dell’ambiente è, ormai, la mission primaria. 

Ma fino a che punto le imprese sono disposte a spingersi per il profitto? Per comprendere come i colossi del mercato si avviano verso la transizione ecologica è necessario analizzare il fenomeno del “Greenwashing”. La Commissione Europea, nella Direttiva 2005/29, lo ha definito come “l’appropriazione indebita di virtù ambientaliste, finalizzata alla creazione di un’immagine verde”. 

Federico Spadini, attivista Greenpeace per la campagna Clima e Trasporti, spiega a Lumsanews che “qualsiasi comunicazione che promuove attività non-green, spacciandole come sostenibili, è greenwashing, così come ogni sponsorizzazione che illustra attività realmente verdi ma in un modo esasperato, portando a credere che costituiscano il core business dell’azienda quando invece rappresentano una parte minoritaria degli investimenti”. Si tratta di simboli, loghi, marchi, colori, imballaggi ed etichette: contenuti talvolta fuorvianti o studiati a regola d’arte per assicurarsi la fiducia del consumatore e indurlo a credere nella svolta green del prodotto pubblicizzato. 

Sebbene il fenomeno si possa riscontrare in tutti i settori, in alcuni comparti l’ecologismo “di facciata” è più diffuso e potenzialmente più dannoso. Il gruppo di ricerca britannico DeSmog ha analizzato 3.034 annunci pubblicitari pubblicati tra dicembre 2019 e aprile 2021 su Twitter, Facebook, Instagram e Youtube da sei società europee leader nel commercio dei combustibili fossili, industria al centro del dibattito sul clima. Il 63% è stato classificato come greenwashing, e per ogni azienda le pubblicità in tema di sostenibilità ambientale sono in media il 50%, mentre solo il 18% del loro portfolio è costituito da attività realmente a favore del clima. Tra i colossi energetici presi in esame, Shell è la multinazionale per cui è stata riscontrata la maggiore discrepanza tra pubblicità “verdi” e investimenti in combustibili fossili: l’80% degli annunci pubblicitari promuove iniziative a sostegno dell’ambiente, quando in realtà l’81% degli investimenti aziendali sono destinati a petrolio e gas.

Esempi di greenwashing sono tutte le comunicazioni “che enfatizzano genericamente il raggiungimento di risultati di sostenibilità senza esporre dati o presentandoli genericamente”, sottolinea Mauro Bellini, direttore responsabile della testata verticale Digital360. Per risultati affidabili, devono invece essere “corredate da indicatori chiave di prestazione chiari e precisi”, che nell’ambito dell’informazione ambientale si identificano nella dimensione “Esg”, ovvero Environmental, Social e Governance. Tre criteri fondamentali “perché permettono di misurare sulla base di parametri condivisi e standardizzati le performance delle aziende sul fronte della sostenibilità”, aggiunge Bellini. Sempre più aziende, tuttavia, stanno scegliendo la strada della trasparenza. E’ il caso di Alcantara, società italiana che opera nel settore tessile, tra le prime al mondo a ottenere lo stato di Carbon Neutrality nel 2009. “Ogni anno misuriamo e riduciamo il più possibile le emissioni di anidride carbonica attribuibili alle attività aziendali, dall’inizio del processo produttivo alla fine del ciclo di vita”, spiega l’azienda. Obiettivo primario di Alcantara, infatti, è seguire una strategia rigorosa “certificando ogni passo con la massima trasparenza e stando alla larga da ogni possibile dichiarazione falsa”. Il fine ultimo è scongiurare attività di greenwashing, perché originano “concorrenza sleale e dirottamento degli investimenti”.

Secondo l’avvocato Maria Rosaria Raspanti, esperta di diritto antitrust e regolatorio, infatti, il greenwashing “è inquadrabile nell’ambito delle attività commerciali ingannevoli”, ma potrebbe anche qualificarsi come pratica scorretta sotto il profilo concorrenziale: “L’azienda che la pone in essere tenta di incrementare la propria quota di mercato senza accollarsi i costi della produzione sostenibile, sfruttando gratuitamente il generale favore esistente per i prodotti che altre aziende hanno, negli anni, contribuito a costruire sopportandone i relativi costi a livello produttivo e informativo”. A risentirne, quindi, sono le aziende che realmente impiegano tempo e risorse per adottare una condotta sostenibile, essendo “esposte all’erosione della propria market share per effetto di pratiche altrui di aggressione del mercato a costo zero”, ribadisce il legale.

Tra i fattori che contribuiscono al disastro climatico c’è anche l’informazione ambientale ingannevole, che alimenta un mercato che troppo spesso antepone il profitto al pianeta. Senza una regolamentazione univoca a livello continentale, aziende più o meno estese continueranno a sponsorizzare business dannosi. Per Spadini, il solo modo di limitare l’azione delle grandi imprese inquinanti è imporre “il divieto di pubblicità e sponsorizzazioni”, unica drastica soluzione che “le spingerebbe sulla strada di una vera transizione ecologica”. Puntare su un’informazione più limpida, infatti, non basterebbe. “Imporre una maggiore trasparenza nelle campagne di marketing non ha funzionato”, spiega l’attivista, citando iniziative promosse da Greenpeace in passato, in quanto “le aziende hanno sfruttato ogni scappatoia possibile per continuare con la propria comunicazione nociva”. Per Bellini, invece, “comunicare in modo trasparente la sostenibilità” è possibile, ma significa “organizzare ed esporre tutte le fonti, sia interne sui processi produttivi che esterne legate a realizzazione e commercializzazione del prodotto finale”. Un obiettivo ambizioso, che potrà essere raggiunti soltanto quando “la sostenibilità diventerà una missione da completare davvero per tutti”.