Hikikomori, il tunnel oscuro
della generazione degli invisibili

La vita trascorsa in una stanza. Dove il giorno si confonde con la notte. E dove le pareti disegnano un confine con il mondo esterno. Marco vive così. Appartato, lontano dal mondo che c’è fuori. Ce lo spiega bene sua sorella Sara (nomi di fantasia): “La sua vita è in quella stanza. Ed è al contrario. Dorme di giorno, mangia di notte. È un circolo vizioso”. Marco, 25 anni, è un hikikomori. Come Eva, Alessio, Alessandro e Davide, protagonisti del documentario Sky “Essere Hikikomori. La mia vita in una stanza”, che negli ultimi giorni ha riportato alla luce un fenomeno che ormai sembra crescere sottotraccia. Marco è una delle 100 mila creature appartate, ragazzi che per anni si chiudono in una stanza, per i quali il mondo è fatto unicamente di pareti e i migliori amici sono il letto e il computer. Lo dimostrano i dati dell’osservatorio dell’Associazione Hikikomori Italia e lo conferma a Lumsanews Marco Crepaldi, fondatore e presidente dell’Associazione: “Purtroppo non ci sono ancora dati ufficiali nel nostro Paese, ma dal nostro osservatorio stimiamo una presenza di almeno 100 mila casi, tra chi è completamente isolato e chi è fortemente a rischio”. Si tratta di giovani ragazzi d’età compresa tra i 14 e i 30 anni, principalmente uomini (tra il 70 e il 90 per cento), anche se il numero delle donne hikikomori potrebbe essere molto sottostimato. “L’isolamento delle donne sembra tendenzialmente meno estremo rispetto a quello degli uomini e comunque sono in numero minore. Poi solitamente la figura femminile viene considerata più affine all’ambiente casalingo, per cui il loro numero potrebbe essere sottostimato anche per questo motivo”, specifica Crepaldi.

La mancanza di dati ufficiali nel nostro Paese è dovuta alla poca attenzione nei confronti del problema. “In Italia non se ne parla – spiega la dottoressa Rita Subioli, psicologa esperta del disturbo – non ci sono dati ufficiali, né strutture specifiche per l’ascolto e l’aiuto dei pazienti”. 

Un silenzio che per Federico Tonioni, responsabile del reparto di Psichiatria Clinica e d’Urgenza al Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma, è semplicemente sintomo di un’assenza d’allarme vero: “I dati in Italia sono tutti alterati – spiega – ognuno trova quello che cerca. Dal 2009, anno in cui è nato il nostro ambulatorio, primo in Italia, ad oggi abbiamo ricevuto 2000 richieste d’aiuto ma non si tratta assolutamente di un allarme, ma piuttosto di un invito a riflettere su cosa si può fare per limitarle”.

Identikit dell’hikikomori tipo

A soffrire principalmente di questo disagio sono i giovani, gli adolescenti a cavallo tra la gioventù e l’età adulta. “Uno dei primi campanelli d’allarme è l’allontanamento da scuola – racconta a Lumsanews Antonio Piotti, psicoterapeuta – una resistenza che hanno per evitare lo sguardo e il giudizio altrui”. “Questi ragazzi hanno paura, provano un forte senso di disagio, aggiunge Elena Carolei, responsabile Hikikomori Italia Genitori – e pian piano decidono di ritirarsi per evitare lo stress della vergogna”. Una vergogna scaturita dal pensiero di non essere abbastanza per la propria famiglia, gli amici, la società. Il fattore principale infatti che rende i giovani di sesso maschile più inclini a questo disturbo è la pressione di realizzazione sociale, ovvero la paura di deludere le aspettaive altrui. Questo accade soprattutto se si è figli unici o primogeniti. Nel primo caso vengono proiettate da parte dei genitori maggiori aspettative di successo personale; nel secondo, il paragone con fratelli e sorelle che vivono una vita normale aumenta il senso di colpa percepito. A questo va aggiunta poi una componente caratteriale sensibile e introspettiva. I ragazzi hikikomori, infatti, non soffrono di alcun deficit cognitivo, ma la loro spiccata natura critica e riflessiva li rende più ansiosi e timorosi di non riuscire a vivere la vita immaginata. Ad essere molto critico su questo aspetto è Tonioni che chiarisce: “I bambini nascono già con delle aspettative da soddisfare per i genitori. Ma allo stesso tempo sono loro a limitarli fin da subito nelle loro esperienze, aumentando il rischio di non farli sentire poi all’altezza e quindi provano vergogna e senso di fallimento. Non si può dare la colpa a loro, sono gli adulti il cattivo esempio”.

Le fasi del disturbo

“Il ritiro è graduale. È un progressivo abbandono della vita”. Così Piotti spiega le tappe dell’isolamento di un hikikomori che, secondo la definizione giapponese, in 6 mesi completa il passaggio al ritiro definitivo. Secondo gli studi di Crepaldi, riportati nel libro “Hikikomori, i giovani che non escono di casa”, in una prima fase il soggetto percepisce la pulsione all’isolamento sociale ma prova a contrastarla, nella seconda inizia ad abbandonare la vita vera per rifugiarsi in quella virtuale, in solitaria nella sua stanza, e nella terza si abbandona definitivamente alla solitudine. Queste fasi però non sono nette, né statiche. Alcuni soggetti infatti vivono un’alternanza periodica tra i vari stadi, lunghi periodi di stabilizzazione, repentine regressioni, ricadute o miglioramenti. Come conferma Sara: “A volte vedo Marco più sereno, parla di più, sembra anche più propenso ad uscire, ma questo dura poco, poi torna nella sua stanza e ricomincia tutto daccapo”. “È un atteggiamento tipico degli hikikomori – spiega Piotti – credono di farcela, ma quando devono realmente uscire subentra l’ansia che distrugge tutto”. 

Il ruolo della pandemia e gli effetti a lungo termine

Nel disturbo hikikomori la pandemia ha provocato un effetto paradossale. “Nella prima fase i pazienti stavano meglio, perché si sentivano giustificati a stare in casa dato che tutti dovevano rimanere tra le mura domestiche e di conseguenza si vergognavano di meno. Ora invece accade il contrario: tutto riapre e loro si chiudono di nuovo”, racconta lo psicoterapeuta. Di conseguenza i ritiri maggiori si riscontrano ora che tutto viene riaperto e i giovani si sentono nuovamente inadatti. “Alcuni non torneranno più indietro”, è l’allarme di Marco Crepaldi, che teme si inneschino effetti a lungo termine irreversibili. “I ritiri molto lunghi possono provocare stati depressivi e di allucinazioni, associati a disturbi fisici anche gravi”, chiarisce Piotti. “A questo poi si aggiungono le difficoltà di reinserimento nella società – continua Subioli – anche solo nel trovare un lavoro, perché se per tanti anni si è rimasti isolati non si ha un curriculum appetibile né idoneo alla propria età. E poi anche a livello umano, ma tutto dipende dal tempo intercorso e dal livello di reclusione effettiva”.

Il fenomeno attira dunque su di sé pareri discordanti. C’è da dire anche che in molti casi la situazione va pian piano risolvendosi, ma tutti concordano sull’importanza di tenere alta l’attenzione nei confronti delle possibili soluzioni che possono essere messe in campo a più livelli, non solo dopo ma soprattutto prima che sia troppo tardi.