“In Italia non sappiamo accogliere davveroTroppa negligenza”

Il soccorritore Vito Fiorino a Lumsanews “Anche io sono stato un salvato”

Vito Fiorino ha 73 anni e vive a Lampedusa, dove fa il gelataio. La notte del 3 ottobre 2013 ha salvato la vita a 47 profughi eritrei nel naufragio della baia della Tabaccara. A Lumsanews ha raccontato come sono cambiate le cose in questi dieci anni

La tragedia di Steccato di Cutro dello scorso febbraio ci ha ricordato che il mare continua a fare vittime e il pensiero è andato subito a quel 3 ottobre 2013. Cosa è cambiato in questi dieci anni?

“Quando è successa la tragedia del 3 ottobre tutti i politici, compreso l’ex presidente della commissione europea Josè Manuel Barroso, dissero ‘mai più una cosa di questo genere’. Eppure l’11 ottobre è accaduta la stessa cosa tra Lampedusa e Malta, dove sono morte 268 persone di cui 60 bambini. Un disastro imputabile al ritardo nei soccorsi, visto che nessuno è uscito dopo il loro allarme. Potevano essere recuperati tutti, così come potevano essere recuperati i nostri e le persone di Cutro. Stiamo parlando di tre tragedie, praticamente quasi 800 persone, che potevano essere salvate ma sono morte”. 

Questo rimpallo di responsabilità continua ad esserci ancora? 

“Assolutamente sì, non è cambiato niente. Nel nostro caso le due motovedette si sono rivelate essere della Guardia di Finanza, ma essendo navi da guerra non lasciano tracce in mare. Mentre nel caso del naufragio dell’11 ottobre, tramite l’inchiesta del giornalista Fabrizio Gatti si è scoperto che le motovedette che sarebbero dovute intervenire appartenevano alle forze militari italiane. Nessuno però è stato punito per scadenza dei termini e questa è veramente una vergogna e una mancanza di rispetto verso queste povere persone che potevano essere tranquillamente salvate”. 

La solidarietà e l’accoglienza sono riuscite secondo lei a compensare questa negligenza? 

“Assolutamente no. Il problema è che in Italia non siamo capaci di accogliere davvero, sfido chiunque a dire il contrario. Sono tante le realtà che promettono di accogliere e assistere i migranti ma troppo spesso ci si riduce solo a portare a casa soldi, arricchirsi. Non possiamo però  fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono anche cooperative che fanno degli ottimi lavori sia a livello di cura che di formazione e ingresso nel mondo del lavoro”. 

Come è cambiata invece la sua vita dal 2013? 

“Inizialmente è stata una sofferenza totale. Mi hanno impedito di salvare altre persone in mare perché il protocollo, dicevano, non lo consente. Ma non esiste protocollo al mondo che possa giustificare il fatto che le persone già salvate non potessero essere trasbordate sulle motovedette in modo da continuare a salvare vite. In questa tragedia, la parte bella è che i miei salvati ancora oggi a distanza di quasi dieci anni continuano a chiamarmi Father. Questo è stato un premio alla vita. E poi, il fatto che per me questa sia diventata una missione: portare nelle scuole e nelle associazioni la mia storia per cercare di dialogare il più possibile e  smuovere il desiderio di aiutare le persone e non farle sentire di altri”.

Prima parlava de “i miei salvati” per descrivere le persone che è riuscito a soccorrere. Si sente mai un salvato?

“Non lo racconto quasi a nessuno, quando ero piccolino sono stato un naufrago. Avevo circa 13-14 anni. Sono uscito con un gommone a Bari con un amico che era più grande di me e aveva la patente. Per sua disattenzione ci siamo ritrovati in mezzo al mare senza che più nessuno ci potesse soccorrere. E quando ormai eravamo disperati, sono arrivati due pescatori con il loro peschereccio, si sono avvicinati e ci hanno salvato. Era una cosa che avevo rimosso perché ero adolescente, di cui però mi sono ricordato poi. Ma ciò che mi fa veramente sentire un salvato è avere l’opportunità di dialogare coi ragazzi e sensibilizzare le nuove generazioni su un tema così importante”.

La sua vita e la sua storia sono legate profondamente al Mediterraneo. Qual’è oggi il suo rapporto con il mare? 

“Ero un amante del mare ma non lo sono più. Sono sempre stato uno a cui piaceva, anche se l’episodio successomi da adolescente mi ha fatto sempre sentire molto indifeso nei confronti del mare, che è veramente molto pericoloso. Ora però le cose sono cambiate. Non ho più la barca dal 2017 e ogni volta che guardo le onde mi torna tutto in mente. In mare non esco quasi più e l’anno scorso ho fatto solo un bagno a Lampedusa. Oggi il mare per me è sofferenza e paura”.

Maria Sole Betti

Classe '96, cresciuta tra l'Adriatico e l'ombra della Madonnina. Da sempre attratta dalle storie degli altri, mi sono laureata in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano. Dopo un Erasmus a Barcellona e una magistrale in Istituzioni e tutela dei diritti, l'approdo a Roma per fare del sogno del giornalismo una professione. Curiosità e chiacchere guidano la mia vita, ma, del resto, ho la luna in Ariete.