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Italiani detenuti all’estero e spesso dimenticati

di Renato Paone17 Settembre 2014
17 Settembre 2014

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Pochi giorni fa, è tornato a casa Massimiliano Latorre, uno dei due marò, dal 2012 in India, con un permesso speciale dovuto a esigenze di salute, che gli ha concesso di rientrare in Italia per un periodo di quattro mesi. Scaduti i mesi concessi dalla Corte indiana, dovrà comunque tornare in India per sottoporsi nuovamente a giudizio assieme al collega Salvatore Girone. Non è solo il caso dei marò, però, a porre sotto i riflettori la situazione degli italiani detenuti all’estero: nelle Filippine è stato liberato su cauzione Daniele Bosio, l’ex ambasciatore in Turkmenistan, accusato di aver violato la legge a tutela dei minori vigente nell’arcipelago asiatico. «La libertà su cauzione – ha spiegato il legale Elisabetta Busuito – in particolare per uno dei due reati di cui Bosio è accusato, quello di traffico di esseri umani, è concessa, su richiesta dell’interessato, a discrezione del giudice solo nel caso in cui, sulla base delle risultanze esistenti, non ci siano forti indizi di colpevolezza». La decisione è particolarmente importante per l’esito del processo, in quanto per la prima volta in maniera formale, si stabilisce l’inesistenza di rilevanti indizi di colpevolezza a carico di Bosio: «Dalle prove finora addotte – queste le parole che hanno accompagnato l’ordine di scarcerazione -, dove il riferimento è alle testimonianze dei bambini, sembra che lo scopo della condotta dell’accusato fosse di portare i minori a nuotare».

 Non solo marò. Numerosi i detenuti nelle carceri estere

Oltre a questi, però, sono ben 3200 i connazionali reclusi in paesi stranieri, spesso dimenticati dai media e dalla Farnesina stessa: l’India è solo uno degli 87 paesi che detengono carcerati italiani. Il maggior numero di questi si trova imprigionati nelle carceri dei paesi dell’Unione europea, ben 2323, 129 nei paesi extra europei, 494 nelle Americhe, 64 nella regione mediterranea e in Medio Oriente, 17 nell’Africa sub-sahariana e 76 in Asia e Oceania. In Europa il record degli italiani detenuti se lo aggiudicano le carceri tedesche che ospitano 1.115 nostri connazionali, segue la Spagna con 524. Nel resto del mondo, il maggior numero di detenuti italiani si trova in Venezuela con 81 persone recluse nelle carceri amministrate dal governo di Caracas. Proprio qui, secondo una relazione di Amnesty International, si riscontrano le peggiori condizioni di reclusione: infatti, sono negati anche i più elementari diritti sanciti dalle convenzioni internazionali come l’assistenza di un avvocato e la presenza di un interprete durante gli interrogatori. In molti casi le poche notizie che vengono lasciate trapelare dalle autorità sono così poche e generiche che è impossibile farsi un’idea dettagliata del processo. Il traffico di droga è la principale causa degli arresti e dei relativi processi: un terzo finisce in galera in Sud America, poco più della metà in Europa. Alto anche il tasso di reclusi per omicidio: 28,6% negli States, il 59,2% in Europa.

Tanti i reclusi dimenticati

Questi i numeri relativi alla parabola che coinvolge tanti italiani, molti colpevoli, ma molti altri innocenti, dimenticati dalle istituzioni. Emblematico il caso di Giulio Brusadelli, un ragazzo romano di appena 34 anni, arrestato e condannato a quattro anni di carcere il 3 marzo scorso a Cuba, perché in possesso di tre grammi e mezzo di marijuana e liberato pochi giorni fa. Nella vicenda è intervenuto il sottosegretario agli Esteri Mario Giro, principale protagonista di questa delicata vicenda: «Sono stato in costante contatto col mio omologo cubano Rogelio Serra – racconta Giro – e ho insistito con le autorità cubane che Brusadelli doveva innanzitutto essere trasferito dal carcere all’ospedale, perché era ed è tuttora in gravi condizioni di salute. Anche i medici cubani hanno convenuto dello stato di salute del giovane». Così il ragazzo è stato prima trasferito in ospedale e successivamente espulso da Cuba. «L’espulsione è modo tecnico per farlo tornare in Italia, trattandosi di un condannato», ha spiegato il sottosegretario agli Esteri.

Stamane è attesa anche la decisione riguardante il caso di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, accusati di aver ucciso il loro compagno di viaggio Francesco Montis e in detenzione da quattro anni nel carcere indiano di Varanasi. In aula dovrebbe finalmente arrivare l’attesa e decisiva discussione, dopo due pronunciamenti di condanna all’ergastolo in primo e secondo grado. I familiari sono in trepidante attesa, con la speranza che la Corte Suprema Indiana possa finalmente dare giustizia ai due italiani.

C’è anche chi ha perso la vita in carceri estere: Mariano Pasqualin, arrestato per traffico di droga nella Repubblica dominicana nel giugno del 2011. Pochi giorni dopo l’arresto, ha trovato la morte in circostanze piuttosto dubbie. Nonostante la richiesta della famiglia di far rientrare la salma in Italia per effettuare un’autopsia che ne svelasse le cause del decesso, le autorità della Repubblica dominicana hanno, senza autorizzazione, deciso di cremare il corpo e spedire in Italia le ceneri.Caso analogo a quello di Simone Renda, arrestato nel 2007 in Messico, accusato di atti osceni dalla cameriera che aveva aperto la sua stanza con un passe-partout, morto poche ore dopo essere stato portato in carcere.

Luigi Manconi, senatore del Pd e iscritto ad Amnesty International, ha scritto una proposta in merito alla detenzione degli italiani reclusi all’estero rivolta a chiunque volesse esprimere solidarietà: a prescindere dall’effettivo compimento del reato «interessano piuttosto le garanzie assicurate durante i processi, il rispetto dei diritti della difesa, l’entità della pena, la sua proporzionalità e, in particolare, le condizioni della detenzione, spesso orribili». Continua il senatore: «Il ministero degli esteri italiano fa quel poco che le relazioni internazionali permettono di fare. Quasi nulla è nel nostro potere. Ma possiamo ricordare questo pezzo di umanità dolente spesso penalizzata ben al di là di quanto i loro errori o i loro crimini esigono».

 Renato Paone

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