Mariangela De Vecchis, criminologa psico-forense

"La vita di un detenuto straniero è completamentediversa e più complicata"

La psicologa psico-forense spiega le difficoltà degli stranieri in carcere

La vita in carcere è tutto fuorché semplice, ancor di più per gli stranieri. Nella vita penitenziaria di un detenuto straniero l’esercizio dei diritti fondamentali della persona è complesso perfino negli aspetti più semplici e banali, così scontati nella nostra quotidianità di persone libere. A spiegarlo a LumsaNews è la criminologa psico-forense Mariangela De Vecchis. 

Quanto cambia la vita di un detenuto straniero rispetto a quella di un detenuto di nazionalità italiana?

“Cambia tutto. Cambia l’alimentazione, la possibilità di praticare la propria religione o le attività ricreative alle quali possono accedere. Senza considerare l’ostacolo linguistico.”

Inizierei dall’alimentazione. 

“Da ordinamento penitenziario ogni detenuto ha diritto ad avere un’alimentazione adeguata al sesso, al momento evolutivo e alla religione. L’offerta fornita al detenuto, però, è già di per sé molto limitata e non riesce a rispettare esigenze come intolleranze, allergie alimentari o il diabete. 

Nel caso degli stranieri questa mancanza è ancora più evidente. Pensiamo, per esempio, al Ramadan. In molti istituti viene rispettato. Molto spesso, però, ci sono istituti in cui il detenuto deve organizzarsi autonomamente nella propria cella.  Quindi nella camera di pernottamento, che è tre metri per tre, mette il classico fornello da campo e, se se lo può permettere, compra il sovra-vitto. In caso contrario, si deve accontentare di prendere il cibo dal vitto che passa tre volte al giorno, mangiandolo, magari gelato, dopo che cala il tramonto. Quello alimentare, è un problema che riguarda, in misura diversa, tutte le confessioni.”  

La libertà di culto, invece, come funziona? 

“Per i cattolici è molto più semplice. Ogni carcere prevede la figura del cappellano che, nel nostro ordinamento, è un dipendente dell’amministrazione penitenziaria regolarmente stipendiato e ha un ruolo centrale. Il cappellano ha la possibilità di organizzare delle attività, di girare indisturbato per tutte le sezioni del carcere – anche quelle di massima sicurezza o dei detenuti in 41bis – senza bisogno di una qualche autorizzazione speciale. Un buon cappellano, quando assume un ruolo pedagogico positivo, fa davvero la differenza.” 

Funziona così anche per i ministri degli altri culti religiosi?

“No, se un detenuto vuole assistenza religiosa da un altro ministro di culto, ci sono due possibilità. Se lo Stato italiano ha stipulato un’intesa con il ministro di quella confessione religiosa, il ministro entra in carcere come volontario a seguito di una specifica richiesta del detenuto, che viene poi esaminata e approvata dal direttore dell’istituto a seguito di specifici controlli. Se, invece lo Stato italiano non ha un’intesa con una data confessione, come nel caso dell’Islam, il procedimento si complica ulteriormente. Oltre a tutte queste pratiche, infatti, è necessaria anche un’autorizzazione ad personam data dal ministro dell’Interno ad ogni singolo ministro. Questo diventa problematico dal momento in cui si considera che i mussulmani in carcere sono moltissimi e che la conversione all’Islam, in ambito detentivo, è molto più diffusa di quanto si possa pensare. Manca poi un luogo di preghiera. In più bisogna ricevere specifica autorizzazione per qualunque attività organizzata da un ministro di culto non cattolico o per l’esposizione dei simboli religiosi. Una volta un detenuto mi ha detto una cosa che mi è rimasta molto impressa: “Qui la religione è una concessione che ti fanno, ma a volte te la tolgono e non sai neanche perché”. 

La verità è che, a volte, una spiegazione neanche c’è. Ci si dimentica di rinnovare un’autorizzazione o mancano i fondi.” 

In che modo l’ostacolo linguistico incide sulla vita del detenuto straniero? 

“Quello linguistico è un ostacolo enorme. Per legge ogni detenuto ha diritto a un’adeguata assistenza legale sia in fase processuale sia all’interno della struttura, ma nella realtà spesso il detenuto straniero che non conosce l’italiano non ha neanche idea di cosa gli stia accadendo, in quanto non ha gli atti del processo tradotti nella propria lingua, né nessuno si preoccupa di spiegarglieli. Nell’80% dei casi non c’è un mediatore culturale che li aiuti a capire la differenza tra la cultura dalla quale provengono e la subcultura detentiva nella quale si stanno inserendo. I mediatori in carcere, purtroppo, sono pochissimi.”

Dunque la mancata conoscenza della lingua italiana compromette anche la loro assistenza legale. 

“Assolutamente si. Non voglio generalizzare, ma molto spesso gli stranieri in carcere non hanno una disponibilità economica che gli consenta di pagare un avvocato. Dunque necessitano di accedere al gratuito patrocinio, ma nella pratica il non conoscere la lingua impedisce loro di fare richiesta o di cercare un avvocato. Gli elenchi dei difensori d’ufficio dovrebbero essere presenti nelle biblioteche delle strutture penitenziarie, ma questo non succede nella maggioranza dei casi. Spesso sono gli altri detenuti ad aiutarli nelle pratiche burocratiche e legali. In questo senso la solidarietà è fortissima”.

L’ordinamento penitenziario però prevede dei corsi scolastici e di alfabetizzazione primaria. 

“Si, il problema principale in questo senso è la continuità. Tutti gli istituti penitenziari cercano di garantire la scuola elementare. Però occorrono fondi per pagare gli insegnanti, altrimenti si è costretti a fare affidamento sul volontariato dei docenti e spesso si fa fatica a garantire tutte le classi di un ordinamento scolastico. Può accadere, per esempio, che un detenuto frequenti la prima media e poi direttamente la terza perché non c’erano i fondi per finanziare anche la seconda. La mancata continuità scolastica è un ostacolo importante all’apprendimento della lingua italiana da parte del detenuto straniero. Stesso discorso vale per i corsi professionalizzanti o i corsi legati alla stabilizzazione.” 

Maddalena Lai

Sarda, laureata in Giurisprudenza e aspirante giornalista. Mi piacciono la scrittura, la politica e i diritti. Ho una vocazione per le cause perse e le domande scomode.