Stefano Nazzi, giornalista del Post, analizza il concetto di ‘tribunale mediatico’ che crea la cosiddetta giustizia attesa. Per i media è cruciale dare notizie verificate e rispettare la presunzione di innocenza, non limitandosi all’accusa. Il giornalismo può svelare errori giudiziari, ma deve basarsi su elementi concreti.
L’esistenza di un “tribunale mediatico” può incidere, anche inconsciamente, sugli attori di un processo
“Può influenzare, ma dipende da come si manifesta. Se vengono replicate, o anticipate, conclusioni di indagini o processi ancora in corso, questo non influenza direttamente gli attori del processo, però crea delle convinzioni nell’opinione pubblica. Il pubblico si forma un’opinione basata sulle idee espresse, specialmente negli studi televisivi, e questo genera la cosiddetta giustizia attesa, ovvero l’aspettativa di determinati risultati. Quando la giustizia poi prende una strada diversa, per esempio con un’assoluzione, si grida allo scandalo”.
In casi di alta risonanza, come si bilancia l’esigenza di smentire il pregiudizio mediatico con l’obbligo etico di non minare la fiducia nelle istituzioni?
“Bisogna dare notizie verificate. Negli ultimi mesi intorno al caso Garlasco abbiamo visto uscire delle informazioni né vere né verificate. Sono state poi smentite dai fatti, e sono state costruite delle ipotesi spacciate per quelle della Procura stessa. Poi, ci vorrebbe una maggiore attenzione da parte degli operatori di giustizia nell’assicurarsi che le notizie non escano prima che ne siano informate le parti. Anche i media dovrebbero sempre ricordarsi della presunzione di innocenza. Questo non significa solo usare il condizionale o la parola ‘presunto’ prima di definire qualcuno un assassino o un criminale, ma vuol dire anche non impostare la notizia dando solo la versione accusatoria”.
Qual è il ruolo del giornalista che con il suo lavoro fa emergere un errore giudiziarioin casi che l’opinione pubblica aveva archiviato come conclusi?
“Ci sono stati dei processi in cui l’informazione ha svolto un ruolo fondamentale nel riaprire vicende considerate chiuse aggiungendo elementi fondamentali. Altre volte i media hanno cavalcato quello che è un filone narrativo, cioè il fatto che anche processi molto solidi venissero messi in discussione in base più a suggestioni che a elementi concreti. E’ quello per esempio che è successo a Erba”.
Nel ricostruire un caso, qual è la sua responsabilità etica quando si espongono le presunte carenze di magistrati o investigatori?
“Il rispetto ci vuole sempre, verso tutti: operatori della giustizia, famiglie delle vittime, famiglie degli accusati. Il compito dell’informazione è mettere in risalto eventuali carenze o storture. Se ci sono sentenze che palesemente possono sembrare un errore, l’informazione ha il dovere di segnalarle”.
Il giornalismo investigativo può stimolare la riapertura di casi in presenza di errori giudiziari acclarati?
“È avvenuto ma a volte non avviene nonostante ci siano seri motivi per dubitare dell’esito di un processo e i media lo facciano notare. La funzione può essere molto importante, ma non bisogna partire da una tesi e poi cercare di dimostrarla, deve avvenire il contrario, bisogna partire da elementi concreti che riescano a formulare poi la tesi di un errore. Per esempio, nel famoso caso di Enzo Tortora, a fronte di una stampa che quasi unanimemente si scagliò contro di lui, ci furono giornalisti che iniziarono ad avanzare seri dubbi in maniera sensata e concreta e questo alla fine riuscì a scalfire la convinzione dell’opinione pubblica e a portare probabilmente anche dei risultati”.
Qual è la responsabilità nel proteggere la privacy e la dignità delle persone anche dopo la pubblicazione?
“La responsabilità è grande, si tratta di coscienza personale. Per questo, ripeto, ci vuole sempre grande rispetto quando si racconta una storia. Bisogna sempre tenere a mente prima di tutto il rispetto sia dei dati di fatto, sia delle persone coinvolte”.


