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Moda sostenibile, il bollino verde che piace alle aziende

di Paola Palazzo27 Ottobre 2021
27 Ottobre 2021

Essere sostenibili va di moda. A rivelarlo è un report di Trustpilot, sito web di recensioni di consumatori, in collaborazione con London Research, che ha analizzato il comportamento d’acquisto di capi d’abbigliamento di 2800 consumatori, 200 in Italia. Il sondaggio rivela che l’82% è più propenso a comprare da aziende che limitano le emissioni in fase di produzione e tutelano i propri lavoratori. Negli ultimi anni l’interesse verso l’ambiente è diventato una tendenza soprattutto per le nuove generazioni, sempre più attente alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Un esempio è il Fridays for Future, movimento studentesco fondato nel 2018 da Greta Thunberg e diffusosi in poco tempo in tutto il mondo. L’attivista svedese ha recentemente detto la sua sul mondo della moda in un’intervista per Vogue Scandinavia, accusando le industrie di “contribuire enormemente all’emergenza climatica ed ecologica”. 

I giovani dunque amano l’ambiente, le aziende devono adeguarsi. Un aspetto sottolineato da Massimo Torti, segretario generale di Federazione Moda Italia: “Sappiamo quale sia l’importanza dei ‘trend’ nel settore della moda, dove il consumatore è diventato sempre più ConsumAttore delle proprie scelte di acquisto”, ovvero è più consapevole e chiede prodotti di qualità, eco-sosostenibili ed etici.

Quanto siano green le aziende della moda in Italia lo spiega un sondaggio di Cikis Studio, società specializzata in strategie e piani operativi sostenibili. Su un campione di 100 imprese italiane , l’89% è attivo nel campo della sostenibilità. Un fenomeno dovuto soprattutto all’aumento della domanda di mercato. Ma il report sottolinea anche che c’è un 25% che ha una percezione di sé non corrispondente alla realtà, ovvero tende a valorizzarsi più del dovuto rischiando di incorrere nel cosiddetto greenwashing. Questa pratica consiste nel promuovere un’immagine aziendale positiva sotto il profilo dell’ecosostenibilità, distogliendo l’attenzione dal reale impatto ambientale causato dalle proprie attività.

Andrea Crespi, membro di Sistema Moda Italia, spiega che “il concetto di sostenibilità viene troppo spesso usato dai marchi come una strategia di marketing”. E se l’ecologismo di facciata è sempre una scelta consapevole o dettata da mancate competenze nell’ambito, Crespi chiarisce che “il greenwashing non è casuale ma voluto. Nella filiera c’è chi ne ha fatto troppo a discapito di aziende molto più attente ma che si espongono meno”. 

Quando un’azienda di moda può dirsi realmente sostenibile? “Quando il suo modello di business – spiega Torti – riesce a raggiungere un equilibrato rapporto tra tre aspetti: economici, dettati dalle variabili qualità/prezzo; ambientali con la realizzazione o la vendita di prodotti eco-sostenibili, riciclati o riutilizzati; sociali che tengano conto del contesto in cui viviamo e quindi anche delle persone che ci lavorano”.

Torti riflette sul ruolo che la crisi post Covid ha avuto nel binomio moda-sostenibilità. “La pandemia ha evidenziato la necessità di un ripensamento dei tempi della moda. Lo stesso Giorgio Armani ha auspicato un rallentamento della produzione per ridurre gli sprechi, invocando il principio del “meno è sempre meglio” legato al numero delle collezioni che, per alcuni gruppi del fast fashion, sono addirittura 24 all’anno, due al mese”. Gucci ha già iniziato: nel 2020 il brand ha abbandonato i calendari ufficiali delle sfilate a favore di due sole presentazioni l’anno. Il report The State of Fashion 2021 di The Business of Fashion (Bof) e McKinsey & Company sottolinea che se la pandemia e la conseguente crisi economica rappresentano le più grandi sfide per l’industria, la sostenibilità rientra tra le opportunità di ripresa post-covid. Un esempio è rappresentato dal mercato dell’usato nel settore della moda. 

Secondo un sondaggio del Boston Consulting Group, in collaborazione con Vestiaire Collective, tra le big della vendita e acquisto online di prodotti di seconda mano di lusso, il mercato di abbigliamento e accessori usati ha raggiunto un valore tra i 30 e i 40 miliardi di dollari nel mondo e si stima possa crescere nei prossimi cinque anni fino al 20%. “La pandemia ha spinto il cliente ad essere più attento ad acquistare prodotti ecosostenibili,  senza tempo, che possano durare come investimenti e che siano acquistabili a prezzi inferiori e più compatibili con il ridotto potere di acquisto di gran parte dei consumatori” spiega Elena De Cò, senior director Strategy & Transaction EY.

Report di Boston Consulting Group con Vestiaire Collective

La svolta green ha inevitabilmente attirato l’attenzione di grandi brand del lusso che hanno quindi deciso di investire in collaborazioni con i portali specializzati nella vendita dell’usato. Esempi di questo tipo sono la partnership tra il sito di second hand The RealReal e Burberry e l’acquisizione di Watchfinder da parte di Richemont. C’è anche chi ha deciso di mettersi in proprio con negozi online interamente auto gestiti, come Gucci, che lo scorso mese ha lanciato Vault, con pezzi di seconda mano e vintage d’archivio. “Certo  – sottolinea De Cò – c’è sempre l’altro lato della medaglia, la rivendita di usato è più esposta alla contraffazione ed i brand rischiano autoriciclaggio in caso di eccesso di offerta o di prezzi troppo scontati rispetto al nuovo. Una grande opportunità da maneggiare con cura”. 

 

 

 

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