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“Nei Cas pochi interventi
per il supporto psicologico
dei migranti"

La mediatrice Serena Baroni a Lumsanews

"Servono fondi per la salute mentale"

di Maria Sole Betti24 Marzo 2023
24 Marzo 2023
Centro accoglienza

Serena Baroni è una giovane mediatrice culturale, nonché dottoranda in Interpretazione e traduzione presso l’Università di Bologna. A Lumsanews ha descritto lo stato del supporto psicologico fornito a uomini e donne nei centri d’accoglienza.

L’80% dei richiedenti asilo manifesta sintomi da stress post-traumatico. Come funziona in Italia con il supporto psicologico? 

“In generale i migranti quando arrivano vengono messi nei Cas, che sono i centri di accoglienza straordinari. Sono strutture enormi dove però purtroppo non ci sono né risorse né tempo per occuparsi in modo approfondito di alcuni aspetti, tipo la salute mentale. Non c’è proprio il personale deputato a occuparsi di queste problematiche e quindi molto spesso i migranti si ritrovano nel pratico ad essere abbandonati a loro stessi. Anche nel caso in cui non avessero delle problematiche di salute mentale, è molto facile che la vita in queste strutture glieli crei. Sono lasciati per mesi se non anni in questa situazione di stallo, di attesa continua di sapere di che cosa ne sarà di loro. Fondamentalmente a livello di Cas non ci sono troppi interventi specifici sulla salute mentale”. 

Quale pensa sia il problema?

“Il problema in generale è sempre lo stesso, cioè che non ci sono fondi e non si investe nell’accoglienza, specie nella seconda accoglienza, ossia quelli che una volta erano i centri Sprar e che adesso non esistono più. Lì si potevano fare anche interventi più direzionati e personali perché le strutture erano più piccole e c’erano tutta una serie di condizioni migliori. Ma con la loro soppressione, il modello non è purtroppo più replicabile”.

Come dovrebbe dunque essere sviluppato il sostegno? 

“Servono strutture di seconda o terza accoglienza in grado di fornire un supporto psicologico a tutti. Ma è importante anche fare attenzione al modo in cui si fornisce questo sostegno. Un approccio che funziona molto bene è quello di tipo etnopsicologico e etnopsichiatrico. Quindi consapevolizzare il fatto che tutto il nostro modello di cura di malattia e di salute è occidentale e italiano, ha le sue caratteristiche e non è detto che possa essere applicato a persone che vengono da altri paesi nel mondo”.

Lei è specializzata in donne migranti, in particolare quelle vittime di tratta. Che cosa differenzia la tratta di esseri umani dalla migrazione? 

“La tratta è un fenomeno che si inserisce dentro quello più ampio della migrazione e spesso neanche le persone che ne sono vittima si rendono conto di che cosa stia loro accadendo. Il livello di consapevolezza varia molto: c’è chi sa che si sta affidando a persone che gestiscono reti di prostituzione e quindi accetta di fare lavoro sessuale perché unica modalità per partire ed arrivare in un altro paese. Altre che sanno a cosa andranno incontro ma non a che condizioni. E chi invece parte pensando di andare a fare altri lavori e solo dopo aver toccato il suolo del paese d’arrivo viene a conoscenza del fatto che dovrà prostituirsi per ripagare il debito contratto”.

Lei parla al femminile perché colpisce le donne più che gli uomini? 

“Si è un fenomeno di genere. Purtroppo è un discorso di domanda, nel senso che, come per la prostituzione, i clienti sono per la maggior parte uomini che cercano donne e quindi c’è più richiesta. In più le donne spesso sono vittime di discriminazioni di genere nel paese di provenienza, quindi la migrazione diventa una modo di emanciparsi e cercare condizioni di vita migliori, che ovviamente è anche uno dei motivi per cui sia uomini che donne migrano. Malgrado questo, in alcuni casi la migrazione può diventare motivo di ulteriori discriminazioni proprio in funzione del genere, quindi si parla di un’ambivalenza della migrazione da questo punto di vista”.

 

 

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