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HomeSpettacoli “Pasolini non avrebbe fatto cinema se non avesse conosciuto Roma”

"Pasolini prova per le borgate
un amore non politco
ma erotico ed estetizzante"

Morreale, docente di Storia del cinema

“Per lui la realtà è nei sottoproletari"

di Irene Di Castelnuovo14 Ottobre 2025
14 Ottobre 2025
pasolini

Emiliano Morreale, professore di Storia del cinema alla Sapienza | Foto Festival del giornalismo culturale di Urbino

Nel cinema di Pier Paolo Pasolini, la città di Roma non è semplice ambientazione. Diventa personaggio vivo della sceneggiatura. Lo spiega a Lumsanews il professore di Storia del cinema alla Sapienza Emiliano Morreale.

In che modo Pasolini utilizza Roma come personaggio cinematografico più che come semplice ambientazione?

“Non avrebbe mai fatto cinema se non fosse venuto a Roma. Pasolini fa cinema perché vuole raccontare la realtà senza filtri e, quando parla di realtà, intende quella non borghese. Per lui, lei e io in questa stanza non siamo realtà. La realtà sono le facce, i corpi e i luoghi dei sottoproletari. Pasolini fa cinema per far saltare il diaframma della scrittura. L’idea di un’immersione totale ed erotica nella realtà è nata conoscendo il sottoproletariato romano. Da questo punto di vista Roma non è un’ambientazione, è l’anima del suo incontro col cinema”.

Da un punto di vista estetico e politico, che valore hanno le borgate nel suo cinema? 

“In molti scritti ne denuncia lo stato di degrado. Dall’altro lato, l’amore che prova per le borgate non è di tipo politico, ma di tipo erotico, quasi estetizzante. A lui quei luoghi piacciono in quanto si è preservata un’umanità precristiana, pagana, non borghese, che neanche il fascismo è riuscito a scalfire e a corrompere. La corromperà solo l’arrivo dei consumi: il consumismo”. 

Girando in questi luoghi marginali e degradati, che tipo di linguaggio visivo ne nasce? 

“Lui utilizza il linguaggio contrario, li sacralizza. Pasolini inquadra queste figure attraverso il grande linguaggio dell’arte occidentale, quindi la pittura tre-quattrocentesca, per poi inserire la musica di Bach, creando una chiave antirealistica, come lo sono i suoi film. Infatti, quando girerà il Vangelo secondo Matteo farà il contrario: non può sacralizzare un soggetto già sacro”.

Come dialoga la sua rappresentazione di Roma con quella degli dei registi coevi?

“La mia impressione è che la sua sia una scelta estetica radicale che ha poco a che fare con il cinema che c’è intorno.Tant’è vero che quando Fellini, che doveva produrre Accattone, vede le prime immagini del film scappa. Questo primitivismo, questo spirito barbarico di Pasolini lo rendono molto diverso dagli altri. Basti vedere i suoi film e i testi che aveva sceneggiato per altri registri, come Una giornata balorda e La notte brava. Hanno un’estetica completamente diversa, molto simile a quella del cinema italiano corrente di allora. Inevitabilmente, è in dialogo con Fellini avendo scritto un film su Roma nell’estate del 1960 mentre nelle sale c’è La dolce vita. Però direi che la sua scelta ne prescinde ampiamente”. 

Quali sono i luoghi romani più significativi nella filmografia e perché li sceglie? 

“Sono i luoghi che lui in realtà conosce già. Soprattutto quelli dove oggi ci sono i murales. Bisogna ricordare però che in realtà le borgate sono molto presenti nel cinema italiano, da sempre. Tutto il neorealismo racconta dei quartieri periferici o semiperiferici. La stessa La dolce vita, è in parte girata fuori dal centro di Roma. Lo è persino Roma città aperta, con la scena in Via Montecuccoli al Pigneto, non distante dalle zone di Accattone. Nel cinema di Pasolini cambia la sacralizzazione, non è uno sguardo realista ma molto stilizzato, epico e tragico. Quindi, in questo senso, va oltre il neorealismo” 

Oggi che cosa resta di questo cinema pasoliniano nel raccontare la città? “Resta lo stereotipo, la maledizione di questo gusto. Ora basta mettere Bach o Vivaldi e usare il bianco e nero per fare un film sulla borgata. Sono pochissimi quelli all’altezza di Pasolini. È sempre meglio non citarlo mai quando c’è un film girato in una periferia romana, anche perché già nel 1966 Pier Paolo scappa dalla periferia. Per lui quel mondo è finito”.

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