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Piazza Fontana, la prima strage contro la democrazia

di Federico Marconi05 Dicembre 2019
05 Dicembre 2019

L’Italia è piena di orologi fermi. C’è quello di Bologna, bloccato alle 10 e 25 del 2 agosto 1980. Quello di Brescia alle 10 e 12 del 28 maggio 1974. Quello di Gioia Tauro alle 17 e 10 del 22 luglio 1970. Ma nemmeno questo è stato il primo.

È un pomeriggio bagnato a Milano, il 12 dicembre 1969. Ha piovuto tutto il giorno e sta già facendo buio. La Banca nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, poco distante dalla stazione centrale, è ancora piena di clienti: è venerdì e le contrattazioni possono durare un po’ di più prima della chiusura per il fine settimana. Persone continuano ad arrivare per un’ultima operazione, quando l’orologio si ferma.

“Stavo entrando nella banca… In quel momento c’è stato il boato e schegge di vetro sono schizzate tutto attorno. Qualcuna mi ha preso, ma me ne sono accorto dopo. Insieme con i vetri sono volati fuori, proprio volati, due uomini che si sono abbattuti sul marciapiede. Mi sono fatto avanti calpestando i vetri. C’era l’inferno”. Un prete di Cinisello Balsamo, don Corrado, sta accompagnando un amico. Per poco non entra nell’edificio, si salva per miracolo: non è uno degli 88 feriti della “madre di tutte le stragi”.

Una bomba posizionata al centro della sala delle contrattazioni fa 17 morti, mai così tanti in un attentato, fino ad allora. Non è un episodio isolato: al contrario segna l’inizio di anni di bombe e sparatorie, assassinii e stragi. È l’inizio della “strategia della tensione”, una sfida alla Repubblica e alla democrazia “bloccata” del Dopoguerra, tra Est e Ovest, comunismo e capitalismo, Urss e Stati Uniti.

Un piano destabilizzante, se non eversivo, che ha avuto come protagonisti tutto e il contrario di tutto: ragazzi con un ideale e giovani fuorilegge, vecchi fascisti e intellettuali di sinistra, militari e spie, ministri e presidenti. Ed è una storia di depistaggi, avallati dalla politica, e di mezze verità processuali che hanno impiegato decenni per affermarsi, aggiungendo dolore su dolore alle famiglie delle vittime e lacerando la fiducia nello Stato.

Ma questo, quando scoccano le 16 e 38 del 12 dicembre 1969 non importa. Arrivano le ambulanze, c’è chi fugge dalla banca e chi entra per soccorrere i feriti. Passa qualche minuto e a Roma scoppiano altre tre bombe, una sull’Altare della Patria, un’altra nel sottopasso di una banca che aveva chiuso da qualche minuto. A Milano ce n’è ancora una, a piazza della Scala, ma viene disinnescata dagli artificieri. Quello di piazza Fontana non era solo un attentato.

Iniziano subito le indagini: in Italia da sempre bombarolo fa rima con anarchico. E nel 1969, in un paese attraversato dalle proteste di studenti e operai che predicavano la rivoluzione e rivendicavano riforme, c’è chi pensa che a sinistra qualcuno abbia voluto fare il “salto di qualità”.

La polizia inizia a fare retate su retate, in poche ore vengono arrestati più di 80 persone legate ai circoli anarchici. «L’ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza le indagini verso gruppi anarcoidi», scrive subito il prefetto di Milano Libero Mazza al presidente del Consiglio Mariano Rumor. Nelle ore successive a Roma è arrestato Pietro Valpreda e a Milano Giuseppe Pinelli.

Due anarchici. Il primo, ballerino e omosessuale, viene riconosciuto da un tassista: “L’ho preso alla stazione e lasciato davanti alla banca”, dichiara agli investigatori. Il secondo, ferroviere e padre di famiglia, non ha un alibi credibile: per gli uomini della Questura del commissario Luigi Calabresi, non regge. Viene tenuto in arresto tre giorni, interrogato, picchiato. Muore anche lui, caduto da una finestra della Questura nella notte del 16 dicembre: “un suicidio”, dicono i poliziotti, “l’hanno buttato di sotto”, rispondono i compagni. Un “malore attivo”, stabilirà poi la giustizia. Valpreda e Pinelli, allora non si sapeva che erano innocenti. O forse sì, ma non si poteva dire: serviva un colpevole “rosso”.

Iniziano le prime conferenze stampa, ma anche qui qualcosa non torna: per alcuni giornalisti le informazioni date alla stampa dagli uomini dello Stato, il prefetto Mazza e il questore Marcello Guida, nascondono altro. Alimentano il dubbio che la bomba, più che anarchica, sia nera.

Non sarebbe la prima, di quel 1969. Il 25 aprile, anniversario della Liberazione, alla Fiera campionaria di Milano ci sono delle esplosioni. Bombe posizionate dai militanti di Ordine Nuovo, neofascisti veneti con a capo Franco Freda e Giovanni Ventura.

È un gruppo di estremisti, cultori di Hitler e del nazismo, i militanti di On, un gruppo veneto con legami importanti: con il Fronte Nazionale del principe Junio Valerio Borghese, con il fuoriuscito dal Movimento Sociale Italiano Pino Rauti, e con Guido Giannettini, giornalista al soldo dei servizi segreti. Rauti, nome che contava nella destra eversiva, legame tra la militanza e le alte sfere militari: come nel 1965, quando all’Hotel Parco dei Principi organizzò il “Convegno sulla guerra rivoluzionaria”, a cui parteciparono generali e ufficiali.

L’allora non più missino Rauti conosceva bene un altro protagonista di quel 12 dicembre del 1969: Stefano Delle Chiaie. Lo chiamavano “Er Caccola”, era il capo di Avanguardia Nazionale, gruppo di neofascisti romani divenuto celebre per aver causato gli scontri di Valle Giulia, fuori dalla facoltà di Architettura dell’Università di Roma, tra giovani “studenti di sinistra” e forze dell’ordine.  L’anno dopo, avrebbe partecipato al “Golpe dell’Immacolata”, organizzato dal principe Borghese per l’8 dicembre 1970: colpo di Stato annullato all’ultimo, quando gli uomini di Delle Chiaie sono già dentro il ministero dell’Interno a svuotare l’armeria. Sono i militanti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale a mettere le bombe a Roma e a Milano il 12 dicembre 1969. Delle Chiaie non è stato mai condannato per gli attentati, così come Franco Freda e Giovanni Ventura. I due ordinovisti sono assolti nel 1987 per “mancanza di prove” con una formula dubitativa da parte della Cassazione: tutti gli indizi portano a loro, ma manca la prova schiacciante. Solo nel 2005, dopo 36 anni, la Suprema Corte li dichiara responsabili.

Le stragi della “strategia della tensione” sono tutte compiute da neofascisti: quella di piazza Fontana del 1969, di Gioia Tauro nel 1970, di Peteano nel 1972, della Questura di Milano nel 1973, di Piazza della Loggia nel 1974, della stazione di Bologna nel 1980. Ma questo cinquant’anni fa, chi indagava dopo la bomba di Milano non lo sapeva: allora la pista da battere era quella rossa.

I funerali di piazza Fontana delle vittime sono il 15 dicembre. Piazza Duomo è piena, migliaia di milanesi sono assiepati sul sagrato. Partiti e sindacati si mobilitano, ma non c’è nessuna bandiera politica a sventolare sul dolore di una città e di un paese intero. “Questa gente è garanzia di democrazia”, dichiara con forza il socialista Pietro Nenni all’uscita dalla chiesa. Quella democrazia fragile, messa a rischio dalle bombe e dalle stragi. Ma che ha resistito alle trame di chi voleva metterle fine e agli orologi che hanno fatto fermare.

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