"La Repubblica popolare sfrutta l'America Latinacome un supermarket"

Tamburini,docente all'università di Pisa "In 20 anni boom dell'interscambio"

Sulle logiche con cui la Repubblica popolare cinese (Rpc) domina il mercato latino americano è intervenuto su Lumsanews Francesco Tamburini, professore di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa.

Mi può dare un ordine di grandezza del commercio tra Cina e Paesi dell’America Latina?
“Se nel 2001 le esportazioni dell’America Latina nella Rpc rappresentavano l’1,6% del commercio, nel 2020 arrivano a toccare il 26%. Questo aumento coincide con l’abbandono diplomatico e commerciale dei rapporti con gli Stati Uniti. Nello stesso arco temporale, le esportazioni latino americane negli Usa sono passati dal 56% al 13%. C’è anche un discorso di cessione, di ritiro da parte statunitense. Quando si parla di America first si intende anche questo. Gli Stati Uniti non solo hanno abbandonato tante aree del Medio Oriente e dell’Africa a sé stesse, ma anche quello che, fino a non molto tempo fa, il Dipartimento di Stato considerava il ‘cortile di casa’.”

Quindi il 2001 segna l’inizio dei rapporti economici tra la Cina e questa regione?
“Questa invasione economica cinese è speculare a tante cose, tra cui la mondializzazione della politica estera cinese e il bisogno di materie prime. Si pensi al rame cileno, ai raw materials e diamanti brasiliani, ai fosfati in Ecuador. Si tratta di mercati mondiali. Tra l’altro, se si guarda anche alle forniture cinesi di vaccini, durante il Covid si vede che la gran parte dei Paesi latino americani ha preferito Sinovac a Moderna, nonostante non garantisse una copertura efficace. La stessa cosa è successa in Africa. Questo fa pensare.”

Alla Cina, quindi, servono materie prime…
“Sì, qualsiasi tipo di materie prime. È come se fosse un supermercato per loro: vanno  e prendono tutto quello che possono. In cambio loro pagano anche con prestiti che gli Stati occidentali non si sognano più di fare. Mentre gli investimenti occidentali in Africa e America del Sud sono fatti da privati, queste sono imprese statali cinesi. Quindi sono ancora più solvibili per loro. Questo non è secondario.” 

E qual è la strategia?
“Ragionando in termini di marketing, loro fidelizzano il cliente. I Paesi latino americani, da essere venditori, diventano anche clienti nel momento in cui si comprano materie prime e si reinveste in prestiti che si riverberano anche sulle infrastrutture. Venezuela, Brasile, Ecuador e Argentina sono esempi di Paesi dove sono stati fatti grandi investimenti infrastrutturali: strade, autostrade, ferrovie, metropolitane. Tutte gestite da ingegneri cinesi. Poi c’è la manutenzione, anch’essa fatta dalla Cina.”

Ma se vengono mandati lavoratori cinesi, il rischio non è che si creino problemi all’occupazione locale?
“Questo è un problema, e si sta verificando anche in Africa. Quella cinese è come una sorta di economia parassitaria che, in alcuni casi, finisce per far morire il Paese ospite. Inoltre, ci sono anche problemi di land grabbing, ovvero dell’acquisizione di grandi appezzamenti di terra da parte di grandi aziende e multinazionali, che li sfruttano intensivamente. E questo crea grandi conseguenze anche a livello climatico.”

E dal punto di vista politico qual è l’obiettivo di Pechino?
“Se Pechino in Africa ha interesse ad avere anche basi militari, come dimostra il caso di Gibuti, in America Latina e nel Sud America è diverso. La fidelizzazione e l’influenza degli Stati avviene soprattutto in funzione del Consiglio di Sicurezza e dell’Assemblea generale dell’Onu. È difficile che un Paese latino americano indebitato con la Cina poi in Assemblea generale voti una risoluzione contro la Rpc. Così come i forum internazionali, come l’Opec in Venezuela. Manca invece l’aspetto ideologico. Se negli anni Sessanta c’era una penetrazione ideologica, oggi non c’è più. I cinesi sono molto pratici: a loro interessano i dollari, l’economia e le materie prime.”

Non c’è quindi il problema di scalzare gli Stati Uniti dalla regione?
“Questo lo hanno già fatto. Se fino al 2010 la politica cinese era fatta soprattutto di soft power, ora si è aggiunto anche l’hard power, inteso in termini di assertività brutale economica. Ci sono guerre che non sono calde, ma che sono violente dal punto di vista della pressione economica.”

E dal punto di vista statunitense la preoccupazione di non avere più presa sulla regione?
“Agli Stati Uniti interessa solo avere stabilità militare nell’area. Basta vedere le truppe in Colombia o in Messico, impiegate nella lotta al narcotraffico. Queste truppe servono solo a limitare l’azione di attività militari/terroristiche. Per il resto non ci sono altri interessi, anche perché costerebbero. Un Nixon che fa i colpi di stato in America Latina non ci sarebbe oggi. “

Quindi non c’è una competizione per il controllo della regione?
“No, come non c’è in Africa. Questo perché gli Usa non possono competere per una questione di numeri. Se una multinazionale statunitense vuole delle royalties, ad esempio, sull’estrazione del petrolio, chiede il 45%. I cinesi, invece, vogliono il 20%. Inoltre, ai cinesi le questioni di tipo sindacale nelle aziende non interessano, e quindi diventano ancora più appetibili. I cinesi e i latinoamericani non si pongono più di tanto questi problemi. Occorre considerare che in America latina c’è un deficit di democrazia: le democrazie compiute in quella regione, infatti, sono molto poche.”

Gli Stati Uniti non hanno una strategia per riprendere il controllo?
“Gli Stati Uniti sarebbero preoccupati se la Cina facesse una base navale in quella regione che dà sul Pacifico. Ma alla Cina, per ora, non interessa. La Cina vuole essere forte sulle grandi vie di comunicazione marittime. Basti pensare che la Belt and Road Initiative passa per Asia, Africa ed Europa. Lì sì che hanno interesse.”