“Testimoni della Storia, non protagonisti”. Intervista a Maria Gianniti, inviata di guerra della Rai

“Ci vuole coraggio, ce ne vuole tanto”. Maria Gianniti, inviata di punta del Gr Rai, ne ha viste di guerre. Era in Medio Oriente, in Libia, in Siria. Il mestiere dell’inviato al fronte non è certo facile, ed è spesso oggetto di critiche. Ma forse è il caso di sfatare alcuni miti.

È cambiato il ruolo dell’inviato di guerra rispetto al passato?

Differenze ci sono, eccome. Oggi ci sono molte più fonti. C’è quasi una rincorsa alle notizie. Le agenzie e la rete aiutano non poco, perché non sempre è possibile stare sul posto. Il reportage assume allora la valenza di testimonianza diretta. Che, rispetto ai dispacci di agenzia, è evidentemente un qualcosa in più.

Dopo la morte di Marie Colvin e Remy Ochlik in Siria, qualcuno protesta per la scarsa sicurezza degli inviati al fronte. È d’accordo con la protesta?

Intendiamoci. Quando un giornalista va al fronte, sa già cosa lo aspetta. Una protezione per i giornalisti non c’è. Né ci deve essere. Ci sono invece dei rischi da assumersi, e nessuno è obbligato a farlo. Lo abbiamo visto con le primavere arabe, con le rivolte a due passi da casa nostra. Sia a Piazza Tahrir che a Bengasi si andava allo sbaraglio insieme agli insorti. Ci sono giornalisti che per seguire le rivolte sono stati picchiati. E gli è andata bene. Perché se ti colpisce una granata, c’è poco di cui stupirsi. Quindi niente protezione per i giornalisti. Siamo testimoni della Storia, non i protagonisti.

Per alcuni essere giornalisti embedded vuol dire essere limitati. È davvero così?

Ci sono vari tipi di embedded. Ce ne sono tanti che hanno mostrato immagini che hanno dato fastidio. L’Abc per esempio è riuscita a testimoniare, durante la guerra in Iraq, il massacro di alcuni iracheni per mano di soldati americani. Una prova che non c’è censura da parte del governo americano. Anzi, gli americani ti permettono di vedere tante cose. Con gli italiani, invece, non sempre è così.

Stesso discorso per la Siria?

Perla Siriaè un po’ diverso, perché il governo siriano controlla l’operato dei giornalisti attimo per attimo. E ai reporter il visto per entrare nel paese viene concesso con il contagocce. Io a Homs non potevo andarci perché non avevo il visto. Questo non mi ha impedito di fare le mie interviste. Da Damasco ho potuto comunque raccontare un diverso aspetto del regime di Assad. Essere “embedded” non è di per sé un limite. Dipende da come lo fai.