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L’Italia alla battaglia delle bufale

di Dino Cardarelli08 Marzo 2017
08 Marzo 2017

Tutti parlano di fake news. Ma in quanti conoscono i meccanismi che stanno dietro la creazione di una notizia falsa? Ed è sempre vero, come spesso si pensa, che i “bufalari” guadagnano cifre importanti con questa attività?

Secondo Ermes Maiolica, uno dei più noti produttori italiani di fake news, la risposta è no: “Tra 2013 e 2014 c’erano bufalari che arrivavano a diecimila euro al mese, inserendo pubblicità e annunci nelle fake news. All’epoca, i siti che praticavano click baiting mi contattavano promettendomi quattromila euro al mese. Oggi però quelli che conosco arrivano appena a 500 euro”.

All’anagrafe Leonardo Piastrella, di professione metalmeccanico, Maiolica ci spiega come si crea una bufala: “Ci sono tanti modi per costruire e lanciare una notizia falsa. Per diventare virale deve azzeccare la provocazione giusta e toccare il nervo scoperto della gente, assecondare paranoie e confermare pregiudizi. Nel mio percorso ho sperimentato varie tecniche per diffondere le bufale: citazioni inesistenti di personaggi importanti, false morti di vip, falsi concorsi. Le uniche che non ho mai provato sono quelle sull’immigrazione perché possono effettivamente creare un danno in un periodo storico così particolare. Purtroppo, invece, sono proprio quelle che girano di più. Sono le più facili da fare e creano un traffico sicuro nei siti”.

C’è chi produce notizie false e chi cerca di smascherarle. Filippo Menczer, professore di Informatica all’Università dell’Indiana, ha creato, a inizio 2016, la piattaforma Hoaxy (https://hoaxy.iuni.iu.edu/) focalizzata su fonti di disinformazione e fact-checking in Usa. “L’idea è nata studiando la diffusione di informazioni sulle reti sociali. Vogliamo capire perché certe notizie false o fuorvianti diventano virali – ci dice Menczer – Non individuiamo fake news. Se dei fact-checkers hanno determinato che un articolo è una bufala, gli utenti possono leggere quello e la smentita sulla piattaforma. Partiamo da una lista di siti che pubblicano notizie false di routine, e siti di fact-checking. Monitoriamo gli articoli, estraiamo i link e ne tracciamo le condivisioni su Twitter. Il nostro motore di ricerca permette di trovare articoli e visualizzare come si propagano da persona a persona tramite retweets, quotes e mentions”. E sul possibile arrivo in Italia: “Non abbiamo risorse sufficienti. Ci stiamo dedicando all’open sourcing del codice, in modo che altri possano sviluppare Hoaxy anche in italiano”.

Tra i siti di fact-checking più importanti in Italia c’è Bufale.net (http://www.bufale.net/home/)                    “Siamo un gruppo di 73 persone, con ruoli definiti – spiega il direttore Claudio Michelizza – Non c’è un metodo preciso per scoprire una bufala. Quando riceviamo una segnalazione, verifichiamo la notizia su Google o controlliamo se i giornali che l’hanno pubblicata siano o meno nella black list. Poi pubblichiamo i nostri articoli, con diversi tagli: bufale, se parlano di notizie totalmente false; disinformazione, se si tratta di notizie distorte; precisazioni, se sono notizie vere che vanno chiarite. Ci sono anche casi di allarmismi ma pure notizie che una volta verificate si rivelano vere”.

Il tema delle fake news è all’attenzione di istituzioni italiane ed europee. La presidente della Camera, Laura Boldrini, si è resa protagonista di numerose iniziative contro le false notizie e il cosiddetto linguaggio d’odio che imperversa spesso sui social.

In Senato è stato presentato un disegno di legge prima firmataria Adele Gambaro del gruppo Ala, che prevede ammende fino a cinquemila euro per chi pubblica, su blog o forum, “notizie false, esagerate o tendenziose attraverso social media o siti, che non siano espressione di giornalismo online”. La pena salirebbe fino a dodici mesi di reclusione in caso di fake capaci di “destare pubblico allarme” o “recare nocumento agli interessi pubblici”. Chi invece dovesse rendersi “responsabile di campagne d’odio contro individui” o “volte a minare il processo democratico” rischia due anni di carcere ed un’ammenda di diecimila euro.

In caso di approvazione, chiunque, prima di aprire blog, siti web privati o forum diretti alla pubblicazione o diffusione online di informazioni, dovrebbe inviare tramite posta elettronica certificata tutte le informazioni personali alla sezione per la stampa del tribunale. Sul ddl le discussioni sono accese. “E’ una pazzia – il pensiero di Maiolica – Non ha senso dare il carcere a chi pubblica notizie non confermate, né creare un organo di controllo in modo frettoloso ed impulsivo”. Posizione simile per Michelizza: “Quando un governo emana un ddl per fermare le fake news, ma è lui a decidere quali sono, il rischio è che si parli di censura. Serve uno strumento che permetta alle persone di capire se una notizia è vera o meno”.

In Germania il governo vorrebbe approvare una legge che prevede multe fino a 500 mila euro alle aziende che operano nei social media e non provvedono a rimuovere una notizia falsa entro 24 ore dalla segnalazione, mentre Facebook ha introdotto un “bollino rosso” con il quale segnalerà le notizie ritenute false. Proprio i social network sono uno dei principali veicoli di diffusione delle bufale. Basteranno questi provvedimenti a mettere un freno alle fake news? La guerra tra chi le notizie false le produce, e chi cerca di fermarle, sembra destinata a durare ancora a lungo, ed i primi appaiono in vantaggio sui secondi. Per ogni sito che produce “bufale”, e viene chiuso, molti altri ne vengono aperti. Nel breve termine, fermare la circolazione delle fake news o anche solo limitarla, sarà dunque molto difficile, come ha spiegato anche il garante della privacy Antonello Soro: “E’ un dato con cui dobbiamo fare i conti, non tanto perchè esiste il web ma perchè non esistono organi certificatori della verità. L’algoritmo in grado di depotenziare le notizie false ponendole in coda non potrà mai rappresentare una valida soluzione”.

 

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