Crisi energetica e ambiente, il governo Meloni tra il dire e il fare

Efficiente utilizzo dei fondi europei, difesa dell’ambiente e della natura, energia pulita, sicura e a costi sostenibili. Tra i temi principali del programma elettorale del governo di Giorgia Meloni, insediatosi il 23 ottobre 2022, vi era la questione energetica. Nodo cruciale da sciogliere, alla luce della guerra in Ucraina. Per smarcarsi dalla dipendenza dalle risorse fossili della sanzionata Russia, a partire da febbraio 2022 l’Europa ha iniziato una disperata ricerca di fonti alternative a quelle russe, stringendo rapporti con Stati ricchi di gas e petrolio nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa, ma anche aumentando i propri approvvigionamenti da Regno Unito e Stati Uniti.

Nel programma elettorale di Fratelli d’Italia viene citata la necessità di “ammodernare l’ormai vetusto patrimonio infrastrutturale italiano”, e di “aggiornare il Pnrr”, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, “alla luce della crisi scaturita dal conflitto in Ucraina”. Tra gli obiettivi delineati dal partito uno è “convogliare le ingenti fonti di approvvigionamento energetico che vengono dal Nord Africa e dall’est del Mediterraneo, diventando un vero e proprio hub strategico”. Non meno rilievo viene concesso alle misure legate al cambiamento climatico: “realizzare gli obiettivi della transizione ambientale ed ecologica”, “diversificare le fonti energetiche attraverso la realizzazione di nuove infrastrutture strategiche, come i rigassificatori”, “aumentare la produzione di energia da fonti rinnovabili”.

Ma l’urgenza di fare fronte alla crisi energetica e gli obiettivi ambientali possono procedere di pari passo? Le maggiori critiche mosse nei confronti della politica energetica del governo Meloni, in linea con quello precedente guidato da Mario Draghi, hanno riguardato proprio la scarsa attenzione destinata alla crisi climatica. Per alcuni già il cambio del nome del ministero della Transizione energetica, ribattezzato della sicurezza energetica, indicava le priorità della nuova Presidente del Consiglio: garantire all’Italia l’approvvigionamento di risorse, anche a costo che queste non fossero pulite e che provenissero da Paesi non democratici.

All’inizio del 2022 il 40% del gas italiano era di provenienza russa. Dallo snodo di Tarvisio transitavano 29,1 miliardi di metri cubi di gas, crollati a 11,2 a fine anno. Per compensare la mancanza di risorse energetiche, l’Italia ha incrementato le importazioni dall’Algeria, che è diventata il primo Paese fornitore, scalzando la Russia dal suo primato. Ma l’Italia ha aumentato l’import anche dall’Azerbaigian, il terzo Stato da cui riceve più gas, dal Nord Europa e dalle monarchie del Golfo, come Qatar e Emirati Arabi Uniti.

Nel mese di settembre 2022 i prezzi del gas registrano un aumento pari a quasi cinque volte rispetto al 2021.

A fronte di una spesa quasi equivalente, l’Italia ha potuto acquistare dalla Russia una quantità di gas molto più ridotta.

Il sei febbraio scorso si è tenuta la riunione della cabina di regia sull’attuazione del Pnrr con i ministeri competenti e le società partecipate Eni, Enel, Snam e Terna, finalizzata ad avviare un confronto sull’aggiornamento del RepowerEU, il piano europeo per affrontare la crisi. In questa occasione Meloni ha affermato di voler “realizzare il Piano Mattei per consolidare il processo di diversificazione delle forniture verso una totale eliminazione del gas russo”.

Per l’ex deputata Rossella Muroni di Green Italia “pensare di sganciarci dal gas russo e di garantire la nostra sicurezza energetica trasformando il Paese in un hub del gas che faccia da ponte tra il Mediterraneo e l’Europa è anacronistico e sbagliato”. Vi sarebbe infatti una contraddizione strutturale tra la promozione formale di politiche ambientali e il massiccio stanziamento di “investimenti in infrastrutture che nel volgere di pochi anni non serviranno”.

Un’altra delle preoccupazioni principali legate alla politica energetica italiana riguarda il rischio della sostituzione di gas con altro gas, passando cioè da una dipendenza a un’altra. Secondo il professore di economia politica e prorettore dell’Università Bocconi di Milano Michele Polo “il problema è che il numero di Paesi che producono gas naturale è relativamente limitato”, per cui la dipendenza sarebbe inevitabile e strutturale. Tuttavia “più si distribuisce il portafoglio di fornitura tra tanti distributori”, continua, “minore è il rischio di dipendere da uno di questi”.

Principio che vale anche per gli approvvigionamenti di Gnl (gas naturale liquefatto), che proviene da Usa, Qatar, Nigeria, Mozambico. Per potenziare la capacità di rigassificazione italiana, in costante aumento, verranno aggiunti ai tre impianti esistenti − Panigallia, Livorno e Porto Viro − i due di Ravenna e Piombino, che dovrebbero fornire ognuno circa 5 miliardi di metri cubi di gas l’anno.

Il comune di Piombino si è opposto al progetto e ha presentato ricorso al Tar del Lazio, denunciando i possibili rischi per l’incolumità degli abitanti dell’area. Preoccupazioni respinte dal Tar, che aveva fissato un’udienza l’otto marzo 2023, rimandata al cinque luglio. Anche per il professor Polo non ci sono “specifici effetti negativi dell’impianto, se non che rimaniamo nell’ambito delle fonti fossili ma comunque diversificando i fornitori”.

Per quanto riguarda invece la presunta frenata di investimenti nelle energie rinnovabili, Polo sostiene che questo non sia dovuto a precise volontà politiche, quanto “agli ostacoli burocratici che rendono incerte le prospettive in questo settore, che causa una scarsa partecipazione alle aste sulla realizzazione di nuovi impianti”.

Secondo l’ultima analisi dell’Osservatorio Fer (Fonti di energia rinnovabili) di Anie Rinnovabili, nel primo semestre del 2022 in Italia sono stati installati 1.211 megawatt di nuova potenza rinnovabile, il 168% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Complessivamente le rinnovabili hanno coperto il 33% del fabbisogno elettrico italiano nel primo semestre 2022, segnalando una tendenza positiva e in linea con le ambizioni del governo. Ma l’indice realizzato da The European House-Ambrosetti segnala che l’Italia rimane comunque uno dei Paesi con la più bassa autonomia energetica in Europa, producendo nel proprio territorio solo il 22,5% dell’energia consumata, a fronte di una media europea del 39,5%.

Per Muroni “c’è una grande distanza tra propaganda e realtà”. Oltre a misure puramente cosmetiche o a ufficiali prese di posizioni a favore della tutela dell’ambiente e della transizione energetica, il governo “non propone alcuna soluzione strutturale per mettere l’Italia sulla traiettoria dell’indipendenza energetica e della decarbonizzazione”. Meloni starebbe continuando a “investire sui vecchi e sporchi fossili”, mentre ci sarebbe bisogno di “politiche radicali e coerenti, a sostegno di strumenti innovativi e partecipativi come le comunità energetiche”.

Entro giugno il governo dovrà aver aggiornato il Piano nazionale per l’energia e il clima, Pniec, scaduto nel 2018. “Il vecchio Pniec non rispetta i target nazionali e comunitari dell’accordo di Parigi”, spiega Simona Abbate, esponente della Campagna clima di Greenpeace Italia. “Servono obiettivi chiari per ridurre le emissioni entro il 2030”, continua, “ma il fatto che il governo sia affamato di gas non fa ben sperare”. Per Abbate “un Pniec che punti alla sostenibilità e al rispetto degli accordi internazionali non solo è un obbligo per il nostro paese, ma dovrebbe anche essere l’obiettivo primario per un governo che vuole salvaguardare le persone e l’ambiente”.

Entro fine aprile 2023 l’Italia dovrà anche presentare alla Commissione europea la proposta di riequilibrio dei fondi del Pnrr e dei fondi del RepowerEu. Un piano che dovrà bilanciare le esigenze energetiche del Paese con quelle ambientali, colmando le contraddizioni che caratterizzano le politiche del governo.