Inquinamento e Covid, il link misterioso della pandemia

L’inquinamento contribuisce a aumentare la mortalità del Covid-19. Questo è quanto emerge da numerosi studi di importanti centri di ricerca volti a dimostrare un legame causale tra elevati livelli di particolato atmosferico (PM10 e in particolare PM2,5) e il peggioramento del quadro clinico dei pazienti affetti da coronavirus. Queste polveri sottili, essendo estremamente rarefatte, non vengono filtrate dalle mucose del naso e della bocca e penetrano in profondità nell’apparato respiratorio, danneggiandolo.

Ci sono però ancora delle questioni aperte. Sono state proprio le sostanze inquinanti ad aver veicolato il Covid, aumentandone la diffusione? Oppure hanno favorito i contagi, debilitando i sistemi respiratori dei soggetti già deboli? O entrambi i fattori hanno operato in concomitanza?

Il bacino padano, che registra livelli record di inquinamento, è un interessante caso di studio. L’epidemia di Covid-19, soprattutto nella sua fase iniziale, ha colpito in maniera particolarmente severa questa zona d’Italia la quale, come ricordato dal Barcelona institute for Global Health, ha la più alta incidenza di mortalità in Europa legata all’esposizione alle polveri sottili PM2,5. 

Le regioni inizialmente più colpite dalla diffusione del coronavirus (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna) fanno parte di una delle aree più densamente popolate, pesantemente industrializzate e inquinate d’Europa. Nella classifica dell’Agenzia europea per l’Ambiente del 2019 la Lombardia risulta la regione più inquinata d’Europa mentre a Brescia, una delle città più colpite dal virus, la concentrazione di particolato ha superato la soglia consentita per 150 giorni nel 2018, rendendola la più inquinata in Italia.  All’insieme di questi fattori antropici si aggiunge anche una componente naturale: le caratteristiche orografiche del territorio, con l’arco alpino che cinge il bacino padano, portano alla quasi totale assenza di venti e al ristagno dell’aria. 

Come detto, i PM2.5 possono avere conseguenze nefaste sull’organismo umano, e ciò potrebbe essere legato a doppio filo al Coronavirus. Interessante a questo proposto lo studio condotto dalla fondazione Eni Enrico Mattei sul Nord Italia, The Effects of Air Pollution on COVID-19 Related Mortality in Northern Italy, che dimostra l’incidenza del PM2,5 sull’aumento delle morti nel bacino padano. I risultati del paper italiano individuano un aumento di mortalità per l’aumento di un singolo microgrammo di polveri sottili in un intervallo tra il 9% e il 12%, in linea con altri studi condotti negli Usa. 

Resta tuttavia da capire in che modo l’inquinamento interagisce con il Covid e il corpo umano e quanto influisce sull’aumento della mortalità. Secondo la comunità scientifica il particolato atmosferico funziona da carrier – ovvero da vettore di trasporto – per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Il processo seguito per “attaccarsi” al PM2,5 è quello di coagulazione: l’agente patogeno rimane sulla superficie della particella anche per ore, giorni o settimane, con la possibilità di essere trasportato per lunghissime distanze.

Come ricorda Andrea Minutolo, coordinatore scientifico di Legambiente, “nelle centrali di controllo dell’aria dell’Arpa sono state rinvenute sulle polveri PM2,5 delle sorte di cadaveri del virus Covid-19”. Non è però ancora chiaro se “quando la gente respira queste polveri, il virus, e la relativa carica virale, sono ancora attive e in grado di infettare l’organismo”. Al momento, sottolinea Minutolo, “non ci sono ancora evidenze scientifiche”.

La questione dunque rimane aperta ed è al centro dell’attenzione della comunità scientifica. Un recente studio di Neeltje van Doremalen, scienziata del National Institute of Health, ha dimostrato che il Covid può rimanere vitale e infettivo negli aerosol (particolato; PM) per ore e sulle superfici per giorni. In particolare, è stato dimostrato ancora una volta che il PM 2.5 e il PM10 agiscono come vettori di diffusione virale e facilitano la sopravvivenza prolungata dei microrganismi, inclusi i virus. Gli esperimenti condotti da van Doremalen hanno quindi indicato che la trasmissione di SARS-CoV-2 tramite aerosol è plausibile. La prova preliminare di questo lavoro ha mostrato la presenza di SARS-CoV-2 RNA sulle particelle di PM di Bergamo. Questo suggerirebbe una serie di scoperte allarmanti: possono essere effettuati rilevamenti del virus sulle particelle PM10 e PM2,5, il virus può creare cluster con le stesse migliorando la sua persistenza nell’atmosfera e questo potrebbe fungere da indice per la diffusione di COVID-19. 

Ad oggi, in ogni caso, persistono alcuni dubbi sul ruolo di vettore del coronavirus nelle particelle sottili, ma ciò che è certo è che l’inquinamento atmosferico rappresenta un serio problema di salute pubblica. Lo stato di infiammazione costante causato dalla sovraesposizione a particelle come le polveri sottili indebolisce il sistema respiratorio e lo rende più penetrabile al coronavirus. Questo accade per “un’affinità elettiva”, così definita da Fabio Ciciliano, membro del Comitato tecnico scientifico, che questo virus ha con il tessuto polmonare. “Chi vive in zone con alta percentuale di aerogeni inquinanti, come le polveri sottili – spiega Ciciliano – ha una capacità di riserva funzionale ridotta (la capacità di un organo ad adempiere, in condizioni di necessità, a funzioni che non gli sono proprie ndr), rispetto a chi ha vissuto in un altro contesto. L’impatto del Covid su queste persone a livello polmonare è sicuramente maggiore e ciò prescinde dalla presenza di altre malattie e dall’età”.

Ci sono poi da considerare le condizioni ambientali, a cui il tasso di inattivazione dei virus nel particolato atmosferico è connesso: un’umidità elevata può favorire un più elevato tasso diffusione del virus. 

Per stabilire una relazione precisa di causa-effetto tra inquinamento e coronavirus serviranno dunque altre ricerche, ma quelle attualmente a disposizione non ci lasciano ampi margini di ottimismo.