JFK, cosa resta dell’uomo della Nuova Frontiera

“Dov’eri quando hai saputo che avevano sparato a John Fitzgerald Kennedy?”. Gli americani, e non solo loro, se lo sono chiesto negli ultimi sessant’anni, quanti ne sono trascorsi dall’assassinio del trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Ma anche per i posteri meno anziani e per tanti giovani delle ultime generazioni Kennedy rappresenta un sogno infranto, il mistero su un’America che avrebbe potuto essere diversa.  

Accadde tutto in una giornata di sole il 22 novembre 1963 nel centro di Dallas, in Texas. Un venerdì rimasto impresso per sempre nella memoria d’America, al pari dell’11 settembre 2001. Una tragedia che raggelò i cittadini statunitensi e quella parte di mondo che, dall’altra parte dell’oceano, lo aveva visto come il campione dell’Occidente. 

Non serve essere americani per riconoscere in Kennedy lo spirito del  tempo. Anni fatti di speranze e illusioni, di scommesse e sfide, di cui JFK incarnava le migliori qualità. Giovane, ricco, bello, amato, aperto al cambiamento. Lo stesso sguardo rivoluzionario e entusiasta che gli permise di passare alla storia come il primo vero presidente del Ventesimo secolo. Ma anche di diventare uno se non il martire degli Stati Uniti ed essere elevato a santo laico degli anni Sessanta.

Già, perché non c’è stato da allora nessun altro leader al mondo in grado di conquistare una popolarità così grande come quella di John Kennedy dopo la morte. Decine tra libri, film, memoriali, vie, piazze. Un mito intramontabile per spinta politica, appeal e carisma, che ancora oggi, a distanza di sessant’anni, continua ad alimentare teorie e a suscitare dibattito. 

Kennedy fu il primo presidente cattolico degli Stati Uniti d’America, nonché il presidente più giovane della storia del Paese. Ma fu soprattutto il presidente della Nuova Frontiera, della sfida della modernità, del coinvolgimento dei cittadini in una visione partecipata del futuro. “Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Queste parole del discorso inaugurale per la presidenza nel 1961 racchiudono meglio di tutte la filosofia kennediana. Un uomo passato alla storia per l’“Ich bin ein berliner”, il memorabile discorso sulla libertà pronunciato davanti al Muro di Berlino dove era andato in visita tre mesi prima della sua scomparsa. E per aver regalato al mondo la speranza di andare sulla Luna, incarnando un messaggio di benessere e speranza. 

Eppure Mr. President fu anche un personaggio controverso, un donnaiolo in presunti rapporti con la mafia, capace di farsi strada nel cuore di una delle crisi più gravi di sempre – i famosi 13 giorni di Cuba e il confronto con Nikita Krusciov – e di sfiorare, non per una ma per ben due volte, una terza Guerra mondiale. Oltre la leggenda, dunque, chi era davvero John Fitzgerald Kennedy?

Nato a Brookline, nel Massachusetts, il 29 maggio 1917, John discendeva da una ricca famiglia di origini irlandesi emigrata nel secolo precedente in America, dove aveva avuto successo negli affari e nella politica. Fu proprio la fortuna familiare, oltre che gli appoggi politici – la madre era figlia dell’ex sindaco di Boston e il padre, il senatore Joseph Kennedy, un ricco uomo d’affari ed ex ambasciatore in Gran Bretagna durante la seconda Guerra mondiale – a fare da trampolino di lancio a Jack, come in molti lo chiamavano affettuosamente, e a condurlo a occupare la poltrona presidenziale a  43 anni.  

Secondo di nove figli, crebbe con un’educazione fortemente cattolica, conservatrice per certi versi. Un cammino rafforzato in scuole e istituzioni accademiche prestigiose, come il collegio maschile Choate, le università di Harvard e Princeton, la London School of Economics. Una formazione  che ritornerà in seguito anche in politica, campo a cui si affacciò ben presto. 

Ben prima della svolta pubblica, Kennedy fu ufficiale, giornalista e scrittore. Nonostante i problemi di salute che sin da bambino lo tormentavano, John decise di arruolarsi comunque nella Marina militare  e di partecipare alla seconda Guerra mondiale. Inviato nel Sud Pacifico come comandante di una motovedetta PT-109, tornò a casa come eroe dopo aver condotto in salvo parte dell’equipaggio di un’imbarcazione americana affondata dai giapponesi. 

È qui che nasce la leggenda dell’uomo coraggioso disposto a combattere per la libertà anche a sprezzo della propria vita. Ed è forse anche per questo che, una volta abbandonata la Marina e ottenuto il congedo, il nome di Kennedy non verrà più associato né al discusso padre né al popolare fratello caduto in guerra, Joseph Jr.. Il  giovane John divenne  in breve tempo una piccola celebrità. 

La fama aumentò alla fine della guerra grazie all’interessamento di un caro amico del padre, William Randolph Hearst, editore e imprenditore che gli aveva trovato un posto come corrispondente per il proprio quotidiano. Cominciò di qui una nuova carriera di JFK, quella da giornalista. Una carriera che non sarà molto lunga – circa un paio di anni – ma che gli permetterà qualche anno più tardi, nel 1957, di aggiudicarsi il prestigioso premio Pulitzer con “Ritratti del coraggio”, una raccolta di otto saggi dedicati a otto senatori diversi accomunati dall’aver posto al di sopra di ogni altra istanza l’avvenire degli Stati Uniti. 

La leva militare, l’esperienza all’Hearst Newspaper, i saggi di successo. Fu anche questo a rafforzare l’immagine pubblica del giovane e a gettare le basi per la sua carriera politica, costruita su una strada già spianata dalla famiglia. Lo sbarco nella res publica avvenne nel 1947, con l’elezione alla Camera dei rappresentanti tra le fila dei democratici su spinta del padre. Quando il deputato James M. Curley lasciò il suo posto per l’undicesimo distretto elettorale del Massachusetts, fu proprio il patriarca Joe a stimolare il figlio a prendersi quel seggio. E fu esattamente ciò che avvenne, visto che JFK riuscì a battere il rivale repubblicano con ampio margine. 

Furono però gli anni Cinquanta a suggellare l’ascesa politica. Nel 1952, appena trentacinquenne, JFK venne eletto al Congresso degli Stati Uniti, passando dalla Camera dei rappresentanti al Senato. Un ingresso, quello a Capitol Hill, seguito da un altro passo importante: le nozze con la ventiquattrenne Jacqueline Lee Bouvier. Una scrittrice del Washington Times-Herald – ben presto ribattezzata Jackie Kennedy – che diventerà una delle più ammirate First lady americane. Al punto da influenzare con la sua eleganza tanto i costumi quanto l’immaginario collettivo. 

Un idillio coronato da una crescente popolarità, culminata nella candidatura alla vice-presidenza nel 1956. Impegni e progetti di legge a poco a poco portarono il giovane senatore a farsi conoscere e apprezzare sempre di più tra i Democrat, che quattro anni più tardi gli dettero fiducia, scegliendolo come il candidato su cui puntare per le elezioni presidenziali. 

Sì, perché nel 1960 quel quarantenne cattolico malvisto dai Wasp (White anglo-saxon protestant) ed espressione di una dinastia potente e chiacchierata riuscì a imporsi alla Casa Bianca. Una vittoria inaspettata con 303 voti dei grandi elettori contro i 219 di Nixon, che darà  inizio a quella che diventerà una presidenza iconica. 

Sin dall’avvio della campagna presidenziale, JFK aveva potuto contare sulla numerosa e potente famiglia, la prima a intuire l’enorme potere che già in quegli anni stava assumendo il mezzo televisivo oltre che la stampa. Agli americani, e al mondo intero, venne così presentato un giovane “profeta” attraente e appetibile, con un passato eroico da soldato ma l’aspetto da bravo ragazzo tutto casa e famiglia. 

Per la costruzione della “macchina Kennedy” il clan familiare non era però abbastanza. Al servizio di John lavorarono per mesi centinaia di manager elettorali, esperti di sondaggi sull’opinione pubblica e persuasori occulti. Uno dei più brillanti brain trust che un politico americano sia mai riuscito a mettere insieme, ma anche una delle candidature più dispendiose di sempre in termini di mezzi economici. 

È in questo modo che il “giovane arrampicatore” – come fu definito all’epoca dallo scrittore Mauro Calamandrei su L’Espresso – vinse la sfida contro il leader repubblicano Richard Nixon: attraverso discorsi sapientemente creati a tavolino e scritti in base ai sondaggi popolari e al benestare della sinistra intellettuale americana. Nonché per merito di tantissimi giovani che cercavano in lui qualcosa di nuovo. In pratica grazie alla costruzione del futuro senza la celebrazione del passato e a una ben riuscita operazione di marketing che, tra l’altro, per la prima volta sfruttò sapientemente il mezzo televisivo con una incessante campagna di spot.

Ebbene, fu proprio questa la chiave che permise a Kennedy di provare a “rimettere in moto l’America”, così come promesso in uno degli slogan della campagna presidenziale del 1960. Un Paese emozionato e speranzoso che non aspettava altro che essere guidato verso un nuovo mondo. Ma che, dall’insediamento a Washington il 20 gennaio 1961, dovette affrontare più sfide che cambiamenti. Dentro e fuori i confini nazionali. 

Se è vero che il grande merito di JFK fu quello di aver dato agli americani e al mondo occidentale la speranza della Nuova Frontiera – la stessa di cui gli Stati Uniti sarebbero poi divenuti i protagonisti indiscussi – è altrettanto vero che fu la presidenza Kennedy a dare accelerazione se non inizio alla guerra del Vietnam. 

Fu sotto Kennedy che si mise in atto la fallimentare spedizione della Baia dei Porci e che si dovette fronteggiare la pericolosa crisi dei missili di Cuba. Può certo definirsi un effetto collaterale della crisi Usa-Urss anche la costruzione del Muro di Berlino e la ripresa della corsa agli armamenti. Allo stesso modo, anche il progresso sulla questione razziale e il riconoscimento dei diritti civili per gli afroamericani fu per molti versi un processo fittizio e poco convinto. 

Alla vigilia di Dallas tutta la politica di John Kennedy era in una fase di stallo. Neanche la sua grande dimestichezza con i media sembrava poterlo aiutare. Eppure, tra successi e insuccessi, la sua morte improvvisa colpì profondamente tutto il Paese, lasciandolo orfano e trasformando il sogno in una grande illusione.

Fu così che un uomo sull’orlo della disfatta politica e con una presidenza caratterizzata da luci e ombre  fu improvvisamente idealizzato e il suo operato profondamente rivalutato. Il presidente che aveva scalato la Casa Bianca e ne aveva fatto per poco più di mille giorni il regno di Camelot – come ci si riferisce spesso alla sua amministrazione – fu beatificato. E con JFK tutto ciò che con lui era morto. 

E se invece John Fitzgerald Kennedy non fosse stato assassinato, che cosa sarebbe accaduto in America e nel mondo? La domanda ha prodotto negli anni una vera e propria letteratura, ma ha lasciato spazio ad altrettanti dubbi su cosa il presidente avrebbe potuto fare se fosse sopravvissuto e il suo mandato terminato il 20 gennaio 1965. 

Difficile individuare le ragioni del suo successo e i motivi per i quali ancora oggi la sua immagine viva nella mente di milioni di persone. Si potrebbero cercare all’infinito le risposte e immaginare come avrebbe scontato i due incarichi se non fosse morto e avesse vinto le elezioni del 1964 al posto del suo ex vice Lindon Johnson. Ci si potrebbe interrogare su che cosa sarebbe successo con la guerra del Vietnam e quale sarebbe stato il destino del “sottofondo rumoroso” – come scrisse il giornalista Gianni Bisiach – della presidenza Kennedy. Si potrebbe addirittura ipotizzare la fine del matrimonio con Jackie Kennedy a causa degli ennesimi tradimenti. 

Una cosa però è certa: Kennedy fu simbolo della grandezza e, allo stesso tempo, della caducità del potere, e fu la sua fine a trasformarlo in un’icona pop. Un uomo in grado di cambiare per sempre la politica americana grazie a una tragica eredità e alla rivalutazione postuma di una visione della storia. E che in questo modo divenne leggenda seducendo l’immaginario collettivo con la potenza che solo i miti sono in grado di sprigionare.