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Kubrick: l’odio per l’esordio, l’amico italiano, il football e le liti con King e Brando

di Giulio Seminara24 Febbraio 2019
24 Febbraio 2019

Filippo Ulivieri cura il sito archiviokubrick.it dal 1999 ed è autore del libro “Stanley Kubrick e Me” (Il Saggiatore, 2012), biografia di Emilio D’Alessandro, autista e assistente personale del regista. È co-autore della sceneggiatura del film “S is for Stanley” (2015), David di Donatello come miglior documentario.

 

Ci voleva un ex meccanico ciociaro e la tempestiva consegna di un grosso fallo di porcellana per svelare la natura del regista più misterioso del Novecento. Può raccontarci la genesi di questa storia che avete descritto nel libro “Stanley Kubrick e me”?

«Dopo alcuni anni dalla morte di Kubrick, Emilio D’Alessandro si è convinto a raccontare i suoi trent’anni trascorsi assieme a lui e mi ha contattato all’indirizzo del mio sito internet, ArchivioKubrick. Ho trascorso due anni a intervistarlo per conoscere la sua storia e ho scoperto una serie di racconti dai set dei film, da “Arancia Meccanica” a “Eyes Wide Shut”. Soprattutto però ho trovato una bellissima storia di amicizia tra due persone apparentemente molto diverse che hanno invece trovato il proprio compagno d’avventura l’uno nell’altro».

 

Con il documentario “S is for Stanley” avete vinto il David di Donatello nel 2016. Cosa avete scoperto? Quale Kubrick esce fuori secondo lei?

«Il libro e di conseguenza il film per me erano occasioni per far conoscere un aspetto inedito di Kubrick. Per la prima volta si può intravedere quale era la sua quotidianità, come passava il tempo quando non girava, come si comportava con le persone che gli erano vicine. Dai racconti del libro e del film emerge la personalità di Kubrick come uomo, non solo come artista. Si poteva insomma creare un ritratto emotivo di Kubrick, cosa che, considerata la sua reticenza, costituisce un unicum irripetibile».

 

Qual è l’aneddoto della storia di Emilio che più l’ha colpita o che ritiene più emblematico del regista e dell’uomo?

«Il fatto che gestisse la sua casa esattamente come gestiva i set cinematografici. “O ti importa o non ti importa,” diceva sempre. Se ti importa, fai tutto il possibile affinché tutto vada per il verso giusto».

 

Tolta la fotografia, parte importante del suo mestiere, e gli scacchi, nei quali eccelleva, quali erano le sue passioni? Seguiva uno sport in particolare?

«Era piuttosto interessato allo sport, specialmente il football americano, di cui si faceva spedire VHS registrate da sua sorella in modo da guardare le partite prima che ci fosse la televisione satellitare».

 

Esclusa questa vicenda sorprendente e la collaborazione con Milena Canonero, quale il rapporto tra Stanley Kubrick e l’Italia? Ha avuto dei modelli tra qualcuno dei nostri registi? C’erano un attore o un’attrice italiana con cui voleva collaborare?

«Ci sono diversi artisti italiani che Kubrick ha contattato per collaborazioni che poi non hanno avuto successo, ad esempio Ennio Morricone per le musiche di “Arancia Meccanica” o Nino Rota per quelle di “Barry Lyndon”. Si sentiva telefonicamente piuttosto spesso con Fellini, probabilmente il regista italiano che più lo affascinava. Kubrick ha anche mantenuto una lunghissima collaborazione e amicizia con Riccardo Aragno, il traduttore di tutti i suoi copioni da “Arancia Meccanica” in poi, e Mario Maldesi, il direttore del doppiaggio delle versioni italiane dei suoi film. Maldesi mi ha raccontato che Kubrick era particolarmente soddisfatto di Giancarlo Giannini, che ha doppiato sia Redmond Barry che Jack Torrence».

 

Di quale film si sentiva più soddisfatto? E quale invece il meno amato?

«Sicuramente il film che non amava era il suo esordio, “Paura e Desiderio”, e aveva ragione: è tremendo. Kubrick ha cercato di rintracciare tutte le copie esistenti per distruggerle. Gliene sono tuttavia sfuggite un paio, così il film è sopravvissuto. Guardatelo a vostro rischio e pericolo. L’unico pregio è che dura meno di un’ora e venti. Non credo che avesse un film preferito: come dice sua figlia Katharina, il preferito è sempre l’ultimo realizzato».

 

Non ha mai vinto un Oscar. Perché?

«Ne ha vinto uno per gli effetti speciali di “2001: Odissea nello Spazio”, e ha ricevuto diverse nomination come regista, produttore e sceneggiatore per “Il Dottor Stranamore”, “2001”, “Barry Lyndon”, “Full Metal Jacket”. Le vittorie sono sostanzialmente dei giochi di potere: non è da escludere che, lavorando lontano da Hollywood, non godesse della simpatia dei colleghi votanti».

 

Kubrick ha attraversato quasi tutti i generi cinematografici e spaziato tra varie tematiche, quali sono state le sue costanti?

«L’interesse per un ritratto veritiero dell’essere umano. Ciò che accomuna i suoi film è uno sguardo lucido sulla condizione umana, senza alcuna concessione al sentimentalismo».

 

Nel cinema di Kubrick la politica è dissacrata o ignorata, ma quale era il suo pensiero politico? E il suo rapporto con la religione?

«A detta di molti, Kubrick era un conservatore liberale, fondamentalmente uno scettico, moderatamente fiducioso nel progresso ma consapevole che spesso regrediamo a causa della nostra natura animale. Nato in una famiglia ebrea non particolarmente religiosa, non ha mai manifestato particolare interesse verso la fede o la spiritualità, anche se era sicuramente interessato agli aspetti storici e perfino mistici di alcune religioni».

 

E’ vero che Kubrick litigò con Stephen King dopo l’uscita di “Shining”? E che un suo progetto western non convinse Marlon Brando?

«No, non è vero. King era molto contento che uno dei suoi romanzi fosse stato scelto da Stanley Kubrick, d’altronde era all’epoca uno scrittore emergente. Quando vide il film fu inizialmente soddisfatto del risultato, poi a poco a poco se ne è distanziato. Nel corso degli anni ha acuito la sua posizione negativa, parlando male del film a ogni occasione, fino a quando non ha realizzato la sua versione – una miniserie in due puntate per la televisione, che a mio parere è noiosissima. Kubrick rivendette i diritti d’adattamento a King e fece inserire nel contratto una clausola per impedirgli di parlar male del film, infatti King ha ripreso a lamentarsi di Kubrick solo dopo la sua morte. Kubrick ha lavorato con Marlon Brando all’adattamento di un romanzo western, ma non sono riusciti a far funzionare nulla. Secondo diverse testimonianze, Brando in realtà voleva dirigere il film da solo e fece di tutto per rendere la collaborazione estenuante».

 

Leggenda dice che gli attori di “Full Metal Jacket” dovettero sottoporsi ad un vero campo di addestramento che includeva l’essere insultati per dieci ore al giorno dal sergente Hartman.

«Lee Ermey (pregiudicato e reduce dal Vietnam, ndr) era stato inizialmente assunto come consulente, e non dubito che abbia dimostrato agli attori e anche a Kubrick come poteva essere severo un vero istruttore dei Marines. E’ proprio per questo che riuscì a “rubare” il ruolo all’attore che Kubrick aveva inizialmente scelto per il sergente Hartman. Non ricordo di aver letto che gli attori furono sottoposti a un addestramento, no. E’ una delle tante storielle che girano, la maggior parte delle quali ha solo – quando va bene – un briciolo di verità».

 

Come nasce la storia di Kubrick “regista” dello sbarco sulla Luna?

«Come nascono tutte le leggende metropolitane. Qualcuno le mette in giro e siccome sono divertenti, o scioccanti, o pruriginose, vengono ripetute fino a quando diventano così diffuse che non c’è più verso di fermarle».

 

Si dice che “Eyes Wide Shut” non fu davvero montato da lui e che a quel film si deve la rottura dell’unione Tom Cruise-Nicole Kidman, come se quel soggetto avesse piegato a sua immagine la realtà.

«Un’altra leggenda metropolitana».

 

Cosa puoi dirci del “Kubrick mancato”? Quali le vere storie del “suo” Pinocchio realizzato poi da Spielberg in “AI” e del film su Napoleone a lungo inseguito? Ci sono altri segreti?

«Di solito si parla sempre di “A.I.”, “Napoleon” e “Aryan Papers”, il film sull’Olocausto, quando si pensa ai progetti incompiuti, tuttavia questi sono solo la punta dell’iceberg. Nelle mie ricerche ho trovato 55 progetti a cui Kubrick ha lavorato nel corso della sua vita e che non è riuscito, per un motivo o per un altro, a portare a termine. E’ molto interessante studiare questi film mancati e vedere come si intersecano con quelli che ha realizzato. Essi rivelano le sue passioni più durature: la Guerra di Secessione, la Seconda Guerra Mondiale e la gelosia. E ci permettono di capire perché, a volte, non era convinto di qualche idea che sembrava promettente».

 

Oggi c’è qualcuno che gli somiglia? Recentemente gli hanno accostano Christopher Nolan e Yorgos Lanthinos.

«Il gioco di accomunare artisti e trovare gli eredi spirituali trovo che sia estremamente sterile. Chi è l’erede di Fellini? Chi assomiglia a Saramago? Chi segue le orme di David Bowie? Ogni artista è unico».

 

Cosa ti sei prefissato di scoprire o di dimostrare con la tua ricerca sul maestro, hai qualche traccia o rivelazione in tasca? Ci puoi anticipare qualcosa?

«Non sono molto interessato alle interpretazioni critiche o agli studi interpretativi dei film. Tra l’altro penso che siano stati scritti fin troppi libri di questo tipo su Kubrick. Quello che penso manchi, e che muove le mie ricerche, è studiare quale era il suo metodo di lavoro: come scriveva le sceneggiature, quali problemi cercava di risolvere, come dirigeva gli attori, quali erano le sue aspirazioni. Per capirlo, si devono studiare i documenti, ad esempio le bozze dei copioni con le scene scartate e le annotazioni su cosa funziona e cosa no, e leggere le sue interviste, che permettono di capire l’evoluzione delle sue idee di regia e quello che riteneva importante per il suo cinema. Se devo confrontare l’immagine di Kubrick che emerge dai documenti e quella che solitamente viene descritta dai critici nei loro libri, sembra di parlare di due registi differenti».

 

A vent’anni dalla scomparsa quale è stata la sua eredità?

«Quella di essere riuscito a fare film in maniera completamente indipendente pur lavorando all’interno dell’industria, creando immagini e momenti di arte visiva indelebili, che sono perfino entrati nella cultura pop. Kubrick è stato capace di realizzare un paradosso: film d’arte, ma commerciali. Non c’è riuscito nessun altro».

 

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