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HomeCronaca “La prima guerra raccontata attraverso i social mostra il doppio volto del web”

"La prima guerra raccontata
attraverso i social network
mostra doppio volto del web"

Il ricercatore Nespoli a Lumsanews:

"Rischio di una guerra che sembri finta"

di Silvia Longo20 Febbraio 2023
20 Febbraio 2023

Francesco Nespoli, ricercatore dei processi culturali e comunicativi presso Lumsa

La guerra in Ucraina è la prima guerra raccontata, oltre che dai media tradizionali, anche dai social. È innegabile, infatti, che questa guerra si combatta non solo sul campo di battaglia ma anche su quello della comunicazione. Con questo conflitto, però, la pervasività dei nuovi media ha raggiunto il suo apice. “Il web ci rende più o meno liberi? Laddove si dispiega in ambienti già liberi è uno strumento di libertà. Laddove questa libertà non c’è ne emerge il lato oscuro”  spiega in un’intervista a Lumsanews Francesco Nespoli, ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università Lumsa a Roma.

Secondo vari esperti, questa in Ucraina, sarà ricordata come la “prima guerra dei social media”. I nuovi media sono, infatti, sempre più coinvolti nel documentare quanto accade nel mondo. Quali sono le conseguenze?

“I social permettono a chiunque di essere creatore e fruitore del contenuto. Le piattaforme in gioco sono tantissime: Twitter, Telegram, Tik Tok. Questo è il primo conflitto di rilevanza mondiale nell’era Tik Tok. Tutto ciò porta ad avere una moltiplicazione di fonti e messaggi. Accanto ai tradizionali operatori dell’informazione dunque abbiamo diversi attori: fotografi che documentano il conflitto con i propri account personali  anziché usare siti, blog, giornali; i soldati che pubblicano video di sé e dei compagni pronti alla battaglia. L’ esercito ucraino ha un proprio account Twitter che aggiorna, in tempo reale, della situazione sul campo”.

Da una parte la possibilità di avere un panorama in diretta del conflitto, dall’altro il problema della possibile confusione in uno scenario molto frammentato.

“Questo conflitto coinvolge tutti i media, da quelli più tradizionali cioè stampa, televisione e radio a quelli nuovi come You Tube, Telegram, Tik Tok. È perciò facile fare confusione in questo mare magnum dell’informazione così polverizzata e difficile da verificare. C’è anche il rischio che social e web possano diventare uno strumento di propaganda. Tutto dipende dal contesto politico in cui ci si trova. Tendiamo ad interpretare l’effetto dei social media come se fosse indistinto e omogeneo a tutte le nazioni e latitudini e in tutti i sistemi politici ma così non è. Nei contesti politici più liberali o comunque democratici il web diventa un’opportunità permettendo di controllare la veridicità delle informazioni e smentire eventuali falsi e questo è quello che succede in Occidente. In altri contesti, più simili a dei regimi autocratici, c’è il controllo dell’informazione. Tecnicamente è più difficile di una volta ma Russia e Cina ci riescono comunque a controllare l’accesso alle fonti. Il web ci rende più o meno liberi? Dipende dal Paese in cui viviamo”.

Da una parte c’è la propaganda russa che controlla i media e blocca l’accesso ai social . Dall’altra storie ed esperienze personali di guerra diffuse dai cittadini ucraini. Due “modelli” antitetici.

“In Russia c’è un modello di controllo con l’intervento centrale che riesce a governare i flussi di informazione. In Ucraina c’è, invece, un modello dal basso che punta alla massima trasparenza e che invita al contributo collettivo, a condividere momenti, storie, messaggi. Non a caso audio e video pubblicati da persone comuni o attori di guerra provengono più spesso da parte ucraina. Si badi però che anche in Ucraina c’è un approccio a livello centralistico alla condivisione di informazioni in circolazione. Semplicemente si dà più spazio d’azione ai cittadini”.

Le piattaforme si sono attivate per filtrare alcuni contenuti e ad esempio Meta ha bloccato l’attività degli account di media russi come l’agenzia di stampa Ria Novosti. La Russia ha poi chiesto la rimozione di queste limitazioni ricevendo la risposta negativa da parte dell’azienda di Mark Zuckerberg.

“C’è stato un intervento diretto delle piattaforme stesse per la prima volta a seguito della stretta del Cremlino contro i social network accusati di “discriminare i media russi”. Possiamo dire che è una guerra combattuta non solo sui social ma anche dai social, dalle piattaforme stesse perché le piattaforme si sono attivate per filtrare alcuni contenuti dei media russi. In realtà questo già lo stavano facendo con le varie iniziative sul controllo delle fake news con l’utilizzo di aiuti di terze parti, ma in questo caso sono intervenute modificando le loro policy (N.d.A. Meta ha istituito un gruppo di centro operativo con operatori russi e ucraini per effettuare un’attività di fact-checking più approfondita e dà la possibilità ai cittadini del paese attaccato di rendere più sicuro il proprio account, tenendo nascoste alcune info personali). Già all’inizio della guerra, a marzo, Twitter aveva eliminato un post dell’ambasciata russa a Londra che sosteneva che il bombardamento dell’ospedale a Mariupol era stato una messinscena. Poi si è mossa anche Meta che ha bloccato dei canali dei media russi”.

L’effetto di una guerra documentata in tempo reale sui social quali ripercussioni ha sui giovani. C’è ad esempio il rischio di una “normalizzazione” della guerra?

“Questo effetto c’è. Ogni media ha un’influenza su come viene percepito il messaggio. Pensiamo che Tik Tok è ancora un mezzo di espressione del sé e ha soprattutto un utilizzo ludico espressivo. L’idea è restituire l’immagine di una guerra che sembra comunque semplice. Si pensi alla fotografa ucraina Valeria Shashenok famosa su Tik Tok per servizi di moda e serate in discoteca e che adesso posta le foto sotto le bombe. Il rischio è che se un influencer riesce a farsi un selfie e racconti la sua vita in guerra  si percepisca una guerra un po’ finta, dove è facile sopravvivere e agire. Rischio che si corre soprattutto su Tik Tok. Su altre fonti questo pericolo c’è meno. Guardando i video su Tik Tok il rischio è pensare che, in guerra, ci sia lo spazio per dei video in posa, che non restituiscono il dato autentico del conflitto ma sono costruzioni un po’ patinate di questo contesto”.

 

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