La sociologa Silvia Semenzin

“L’espressione revenge pornrimanda a una narrazionesbagliata del fenomeno”

La sociologa Silvia Semenzin spiega “Serve un cambiamento sociale”

Silvia Semenzin è una ricercatrice in Sociologia Digitale all’Università Statale di Milano e un’attivista per i diritti umani digitali. La sua è una delle voci della campagna #intimitàviolata, che nel 2019 ha portato alla legge contro la condivisione non consensuale di materiale intimo. A Lumsanews ha spiegato le dimensioni sociologiche del reato e la problematicità del termine revenge porn.

Secondo la sua opinione perché il fenomeno della diffusione non consensuale di materiali intimi è diventato così popolare con il nome di “revenge porn”?

“Sicuramente le narrazioni mediatiche hanno contribuito nella creazione di questo termine. Studiando meglio il fenomeno si capisce che la vendetta è una risposta molto minimizzante. In realtà il fenomeno ha molto più che vedere con il controllo maschile e con le relazioni di manipolazione.  “Revenge porn” è un termine più mainstream, più pop e quindi più facile da ricordare, però contribuisce molto alla diffusione di una narrazione sbagliata del fenomeno.”

Perché durante la pandemia si è riscontrato un aumento del fenomeno?

“Da un lato perché abbiamo passato più tempo online. Dall’altro lato le donne sono sempre state oggetto di odio perché viviamo in una società profondamente misogina e in un momento così complesso come quello del lockdown è cresciuta la violenza nei confronti delle donne in tutte le sue forme.”

Che meccanismi scattano all’interno dei gruppi telegram, tristemente famosi per la diffusione di questi materiali?

“Telegram è una piattaforma che conferisce all’ utente un senso di pseudo-anonimato e quindi diventa un megafono di questa cultura della violenza sulle donne, che non accade solo nei gruppi telegram ma vede le stesse dinamiche svilupparsi nei gruppi del calcetto composto da pochi amici, che però utilizzano lo stesso linguaggio è si mandano lo stesso tipo di materiali.”

Un materiale molto presente nei gruppi telegram è il deepfake. Mi spiega il funzionamento?

“Il deepfake è frutto dell’evoluzione tecnologica nel campo della violenza contro le donne e ci fa capire come la diffusione non consensuale di contenuti intimi sia una questione di genere. È un’intelligenza artificiale in grado di creare video fittizi usando i volti di persone reali. In questo caso è utilizzata per creare immagini a sfondo pornografico, ovviamente senza il consenso della persona implicata”.

Lei pensa che gli utenti percepiscano l’online come un luogo irreale, dove i crimini non hanno un peso?

“Dipende dall’utente. C’è una grossa fetta di persone più che altro non sensibilizzata, magari sa che sta facendo qualcosa di immorale, però non si rende conto che sta compiendo un reato e questo si deve ovviamente a una mancanza di educazione sessuale, di genere e anche digitale.”

Lei vive e lavora in Spagna. Come viene percepito questo tema lì? La legge come tutela le vittime?

“In Spagna la recente legge del “solo si è sì” ha introdotto per la prima volta un reato ad hoc per la condivisione non consensuale di materiali intimi, riconoscendolo come un reato di genere. È una legge che deve molto a quella italiana ma è più incentrata sul target delle vittime. Va detto però che in Spagna la legge si accompagna ad una serie di altri decreti che vengono fatti all’interno del Paese, che sono inseriti all’interno di un percorso di femminismo, molto ben consolidato e promosso direttamente dal governo”.

Lei pensa che il Digital Service Act, voluto dall’Unione Europea, possa portare a una regolamentazione efficace delle piattaforme?

“Il Digital Service Act purtroppo non ha accolto molte delle richieste fatte dalle associazioni che si occupano di violenza digitale. Ad esempio quella di andare a regolamentare le piattaforme pornografiche, che sono molto più libere dei social media. Molte piattaforme pornografiche hanno contenuti non consensuali e la loro politica è poco trasparente. Questo per le vittime di violenze digitali è un gigantesco problema, perché quando i loro video finiscono in quelle piattaforme è impossibile rimuoverli. Il fatto è che all’interno del Digital Service Act restano scoperti ambiti importantissimi”.

 

Beatrice D'Ascenzi

Nata a Roma, mi laureo prima al Dams in Cinema, Televisione e Nuovi media e successivamente mi specializzo in Informazione Editoria e Giornalismo presso l’Università Roma Tre. Amo il cinema, la storia latino-americana e il giornalismo radiofonico, che spero riesca a placare la mia costante necessità di parlare. Di me dicono che sembro uscita da un romanzo di Gabriel García Márquez.