Social e bambini, il lato oscuro delle challenge

Antonella aveva solo dieci anni, e qualcosa l’ha spinta a stringersi la corda di un accappatoio al collo fino a perdere i sensi. Sotto accusa la Blackout challenge, la folle prova di resistenza fino all’asfissia, e un social network che spopola tra i più giovani, Tik Tok. Il desiderio di visibilità tra i coetanei, o forse un tentativo di emulazione, soggiogata dal fascino di un ignoto “burattinaio”. Cosa abbia spinto la bambina di Palermo a compiere un gesto così estremo ancora non è stato chiarito. La tragedia nasce su un social network, uno di quei luoghi virtuali per molti remoti e incomprensibili, ma ormai così intrecciati con le nostre vite.

Secondo il report “Digital 2020” di We Are Social in collaborazione con Hootsuite, in Italia 35 milioni di persone utilizzano i social. La fascia di età più coinvolta va dai 25 ai 34 anni, e l’1,6% di utenti ha dai 13 ai 17 anni. La piattaforma più frequentata è YouTube con l’88% di utenti, seguono Whatsapp, Facebook, Instagram e  Tik Tok con l’11%.

L’indagine “Adolescenti e Stili di Vita” condotta da Laboratorio Adolescenza e Istituto Iard su più di 2000 ragazzi, restituisce una fotografia completa del minore come utente social. Il 32% degli adolescenti ha ricevuto uno smartphone a 10 anni, e iniziato a frequentare i social a 11. Quasi la metà ammette di aver mentito sull’età minima pur di poter accedere alle piattaforme in fase di iscrizione. E il 44% riconosce di non avere tutte le informazioni necessarie per navigare in rete in sicurezza, ma allo stesso tempo ritiene di non correre alcun rischio.

Anatomia del bambino in rete
I social network veicolano qualsiasi tipo di contenuto, tra cui le sfide mortali come la Blackout o la “Coronavirus Challenge” che consiste nel riprendersi mentre si leccano superfici in ambienti pubblici. Prove assurde che spesso coinvolgono anche i bambini. “La loro vulnerabilità deriva dall’immaturità cognitiva nel gestire la complessità della vita online”, spiega a Lumsanews Alberto Pellai, medico psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore dell’Università degli Studi di Milano. L’utilizzo dei social “richiede un costante lavoro di integrazione tra la parte emotiva del cervello e quella cognitiva”, che monitora e riflette su rischi e conseguenze delle proprie azioni, ed è in grado di avvertire il pericolo. Minore è l’età, più si è sbilanciati verso l’emisfero emotivo, e non si hanno quindi le competenze digitali né cognitive per gestire i social in autonomia e sicurezza.

È quindi fondamentale il monitoraggio delle attività online da parte di un adulto, compito non facile per chi si avvicina a un mondo lontano dalla propria esperienza. L’approccio vincente è quello di una “genitorialità sociale” – secondo Pellai – ossia “un progetto educativo condiviso in alleanza con tutte le altre agenzie del territorio”, come la scuola. È necessaria una “mente adulta comune”, un consenso generale su cosa sia adatto o meno a un bambino. “Quando il confine è ben definito si attiva la trasgressione, e chi sta trasgredendo sa che è fuori dal territorio della norma” – sostiene lo psicoterapeuta – e questa consapevolezza porta il soggetto a limitare la trasgressione stessa in intensità, qualità e quantità”.

I recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione dell’opinione pubblica i social network non solo come veicolo di contenuti inadeguati ai minori, ma anche come grandi archivi dei dati sensibili degli utenti. Dopo la morte di Antonella, il Garante per la protezione dei dati personali ha avviato un provvedimento d’urgenza per Tik Tok, imponendo il blocco sull’utilizzo dei dati di utenti la cui età anagrafica non potesse essere accertata. Secondo la legge italiana, un account social può essere creato a partire dai 14 anni. “Un trattamento dei dati basato su un contratto non validamente concluso è un trattamento illecito”, precisa a Lumsanews l’avvocato Guido Scorza, membro del Garante e relatore del provvedimento.

La necessità di verificare l’età nasce dal meccanismo di profilazione dell’utente: il gestore della piattaforma acquisisce – tra gli altri dati personali – l’età dell’utente, e in base a questa propone contenuti personalizzati. Se un bambino di 9 anni dichiara di averne 14, vedrà inevitabilmente contenuti inadatti alla sua età. Il Garante contesta a Tik Tok quindi la mancata verifica degli account, problema risolvibile – secondo Scorza – osservando “il modo in cui un utente interagisce con una piattaforma e con altri utenti”.

Sotto il profilo penale i social non corrono particolari rischi, il che è dovuto alla mancanza di un’adeguata legislazione. Alle piattaforme è stato contestato il reato di istigazione al suicidio, che però dal punto di vista giuridico non può essere applicato alle sfide online. L’avvocato Marisa Marraffino, specializzata in reati informatici, spiega che “l’articolo 580 del codice penale prevede che ci sia la volontà di indurre la persona al suicidio”. Le challenge online si presentano tuttavia come “giochi”, e riportano il banner di avviso sulla pericolosità delle azioni compiute nei video. A mancare quindi è “l’elemento materiale e soggettivo del reato”.

Per risolvere il problema legato a un fenomeno così complesso bisognerebbe ovviare alla “deresponsabilizzazione del legislatore” negli anni, come ricorda Marraffino, con la creazione di una norma specifica. Ma anche intraprendere la strada amministrativa, con l’introduzione di un codice di autodisciplina dei social, “una convenzione internazionale che arrivi dalla California (dove sono nati i social n.d.r), e che ogni Paese sia chiamato a recepire”. Fondamentale anche un’educazione digitale per adulti e minori, che deve però arrivare prima dell’entry point, ossia il momento in cui il bambino inizia a usare i social, spiega Pellai. Un lungo lavoro di preparazione consentirebbe a genitori e figli di approcciarsi alla rete in modo consapevole e sicuro.