Sempre più partiti e movimenti stanno aprendo “scuole di formazione politica” rivolte soprattutto ai giovani: eventi, workshop, convention spesso a pagamento, capaci di attirare centinaia di partecipanti. Ma quanto hanno davvero a che fare con le scuole politiche del Novecento? Lo abbiamo chiesto ad Anna Tonelli, professoressa di Storia contemporanea all’Università di Urbino e autrice del libro A scuola di politica: il modello comunista di Frattocchie.
Professoressa, assistiamo al ritorno delle scuole di politica. Che cosa sono davvero?
“La premessa è che queste ‘nuove scuole’ non hanno nulla a che fare con quelle del passato. Servono essenzialmente a raccogliere nuovi iscritti e sostenitori, soprattutto giovani. Sono più simili a workshop, seminari, cicli di conferenze o master non universitari. Non vanno confuse con le scuole politiche novecentesche, che avevano una struttura e obiettivi completamente diversi”.
Quindi non si tratta di formazione politica in senso stretto?
“Direi di no. Intercettano una fame di politica fra i giovani, ma non sono pensate per formare davvero una classe dirigente. Spesso presuppongono – o danno per scontato – che alla fine dell’esperienza ci sia l’ingresso nel partito. In questo senso somigliano più a serbatoi di cooptazione che a luoghi di formazione”.
I partiti parlano spesso di “individuare talenti”. Qual è il rischio?
“Il rischio è che non si selezioni sulla base di competenze politiche, ma sulla capacità comunicativa. Si cercano figure ‘instagrammabili’. Non è formazione politica: è comunicazione politica, che è una cosa profondamente diversa”.
La scuola per antonomasia è quella del Pci, le Frattocchie. Quando nasce e perché?
“Nasce nel 1944, addirittura a guerra non ancora conclusa, perché l’Italia democratica aveva bisogno di ricostruire una classe dirigente dopo vent’anni di dittatura fascista. Il Pci, partito di massa, si dà subito l’obiettivo di formare quadri capaci di operare sia a livello centrale che amministrativo. All’inizio l’impronta è fortemente ideologica, poi la formazione si amplia a economia, diritto, amministrazione, tecniche di comunicazione pubblica”.
Una formazione lunga e strutturata, molto diversa da quella attuale.
“Sì. Le Frattocchie erano un luogo residenziale: i corsisti vivevano insieme, servivano a tavola, pulivano, organizzavano turni di vigilanza. Era un vero collegio politico: si imparava non solo dai corsi, ma anche dalla vita collettiva. Alcuni percorsi duravano un anno. E gli operai o i contadini che perdevano lo stipendio erano sostenuti economicamente dal partito”.
E la Democrazia Cristiana?
“La Dc aveva la propria scuola alla Camilluccia, a Roma. L’obiettivo era lo stesso: selezionare e formare la futura classe dirigente del Paese, con una necessità ancora più forte, essendo un partito di governo. I corsi erano però più brevi, in genere un mese. La formazione dei quadri, nel mondo cattolico, era sostenuta anche da numerose organizzazioni collaterali, professionali e sociali”.
I socialisti seguirono lo stesso percorso?
“Non c’era una vera scuola fino alla segreteria di Craxi, negli anni Settanta. Craxi potenziò la sezione quadri con seminari sui temi del momento e i primi veri corsi di comunicazione politica, soprattutto con l’arrivo della televisione come attore centrale”.
In conclusione, professoressa: le nuove “scuole” formano davvero alla politica?
“No, non direi. Le scuole del Novecento formavano chi avrebbe amministrato il Paese. Quelle di oggi formano alla comunicazione. Che è un’altra cosa”.


