Gli impatti dell’allevamento intensivo sul benessere animale tocca aspetti etici legati alla presunzione di superiorità degli esseri umani rispetto alle altre specie. Massimo Filippi, professore di Neurologia presso l’Università San Raffaele di Milano si occupa da anni della questione animale da un punto di vista filosofico e politico. Con Lumsanews riflette su una possibile evoluzione del rapporto tra uomo e animale, da mero strumento di sussistenza a soggetto autonomo e senziente, abbandonando ideologia specista e cultura di dominio.
Come lo specismo e l’ideologia del dominio condizionano la nostra visione dell’animale?
“Lo specismo non è un pregiudizio, ma un’ideologia giustificazionista, che legittima lo sfruttamento animale dopo aver appurato che da esso si può trarre profitto, permettendo di perpetuarlo. Gli allevamenti considerano gli animali degli esseri consumabili, privi di un’autonomia e di una “habeas corpus” e che per questo possono essere trattati in qualunque maniera. Il dominio invece è una violenza sistemica e istituzionalizzata, in cui i vettori del rapporto di potere sono immodificabili e unidirezionali. Si manifesta quando si perde l’adattabilità delle logiche di potere e si diffonde in modo così capillare da diventare invisibile”.
Quale ruolo assumono gli allevamenti intensivi nel perpetuare questa eredità culturale?
“Non parlerei di maltrattamento solo nel caso della violazione delle leggi della zootecnia. L’allevamento intensivo è un inferno in terra a priori, anche se venissero rispettate tutte le possibili norme. È la forma più acuminata del pensiero specista”.

Perché lo sfruttamento animale è così normalizzato nelle coscienze dei consumatori?
“Credo che questo sia parte della cultura del tempo. Non c’è più una cultura antagonista in generale, non solo per i diritti animali. Non vedo più grandi manifestazioni di piazza come negli anni ‘70. Non vedo più una politicizzazione come c’era anni fa e le notizie vengono consumate alla velocità della luce, per cui se la prima inchiesta viene percepita come uno scoop, la seconda non arriva neanche ai mezzi di comunicazione a grande diffusione e la terza non la guarda più nessuno”.
Il riconoscimento giuridico degli animali rappresenta davvero uno strumento per riconoscere l’autonomia dell’animale?
“Ovviamente sulla carta è un passo avanti, però non credo che abbia un effetto nella pratica quotidiana. Basta vedere i diritti umani che sono sanciti da tempo. Sarebbe necessario avviare una vera e propria rivoluzione culturale, dove si comprendono i meccanismi di animalizzazione e si sviluppi una cultura del non dominio. Il controllo deve essere successivo. Non basta allargare i diritti, serve un ripensamento filosofico profondo ed esteso”.
Cosa potrebbe favorire questo cambiamento culturale diffuso?
“Bisogna iniziare un lavoro sotterraneo di progressiva modifica della percezione culturale, iniziando a pensare a dei meccanismi che tengano conto degli animali. Oppure perdere quell’atteggiamento paternalistico, evitando di metterci ancora una volta nel ruolo degli eroi salvatori. Bisogna invece riconoscere che gli animali hanno una loro individualità, una loro voglia di vivere liberi, tant’è che pur nella straordinaria disparità delle forze tra noi e loro, nel sistema di dominio capillare dell’allenamento intensivo, ogni tanto qualche animale morde l’allevatore e ogni tanto qualche animale tenta la fuga”.