Iran, il veleno del regime tra i banchi di scuola

Andare a scuola non è più un diritto e le studentesse iraniane lo sanno bene. Sembra l’anello di congiunzione tra la repressione e il genocidio. Da novembre 2022 in città e regioni diverse dell’Iran cinquemila studentesse hanno accusato gravi sintomi di avvelenamento mentre erano a scuola. A centinaia sono state ricoverate in ospedale con sintomi che includono difficoltà respiratorie, intorpidimento degli arti, palpitazioni, mal di testa, nausea e vomito. Fonti di stampa locali e internazionali parlano di alcuni decessi. La prima vittima è una ragazzina di 11 anni, morta a Qom, cittadina a sud della capitale Teheran.

I casi scuotono un Paese che dal 16 settembre combatte la rivoluzione conosciuta in tutto il mondo con lo slogan “Donne vita libertà”. Una rivoluzione pacifica scoppiata dopo la morte di Mahsa Amini, vittima delle percosse ricevute dopo l’arresto della “polizia morale” che voleva punirla per non avere indossato secondo le regole il velo. Un evento tragico che ha portato in piazza le prime donne che hanno cercato di sensibilizzare il regime con atti significativi, come il taglio delle ciocche dei capelli. Proteste domate a forza di arresti, quasi ventimila dall’inizio, e vittime, oltre cinquecento.

Alcuni avvelenamenti nelle scuole colpiscono poche persone, altri più di un centinaio. Secondo quanto riporta l’agenzia americana The Media Line, il 6 febbraio 2023 sono state colpite 11 scuole contemporaneamente, mentre il 14 febbraio 117 ragazze di diversi istituti. 

I dati filtrati dal regime, “sempre da mettere in dubbio”, spiega a Lumsanews la giornalista Lucia Goracci, non consentono di capire se questi episodi siano da far risalire ad azioni deliberate. Per questo, il governo ha avuto reazioni contraddittorie e  vaghe. Inizialmente ha liquidato le malattie come “voci” del popolo, mettendo in discussione l’esistenza degli stessi attacchi. “Questo agli iraniani non è sfuggito. Ecco perché ci sono state moltissime azioni di dissenso, soprattutto da parte dei genitori e da parte di tutta la società civile che denuncia questa forma di omertà”, racconta l’attivista Parisa Nazari che attualmente vive in Italia.

Secondo il rapporto dell’agenzia iraniana HRANA sono stati colpiti da novembre fino all’8 marzo circa 297 istituti in tutto il paese. Gli attacchi sono stati rivolti non solo a istituti femminili ma anche maschili. Si ipotizza che il regime con a capo il presidente Ebrahim Raisi, esponente conservatore, abbia voluto punire le azioni di disobbedienza civile che sono avvenute all’interno degli istituti negli ultimi mesi.

“Strappare le foto della guida suprema Khomeini dai libri, andare in giro senza velo, sono tutti atteggiamenti che quando andavo io a scuola erano inauditi. Loro stanno sfidando il regime”, argomenta ancora l’attivista.

Manifestanti in piazza contro la morte di Masha Amini. /Foto Ansa

Le reazioni del governo iraniano

Raisi è intervenuto quattro mesi dopo i primi avvelenamenti e ha incaricato il ministro dell’Interno Ahmad Vahidi di indagare per “alleviare le preoccupazioni delle famiglie”. Ha parlato anche di un complotto mosso dai nemici dell’Iran, con diretto riferimento alle potenze occidentali che “cercano di creare problemi nelle strade, nei mercati e nelle scuole per provocare rabbia tra gli iraniani”.

Dopo le parole del presidente Raisi, anche il leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei, ha descritto gli avvelenamenti come un “un crimine enorme e imperdonabile” e ha condannato i giovani come corrotti dalla società occidentale. L’11 marzo le autorità iraniane hanno arrestato più di 100 persone con l’accusa di appartenere a gruppi “ostili”.

Un mezzo passo indietro dopo le affermazioni del Consiglio Superiore della Rivoluzione Culturale iraniana, secondo il quale la maggior parte degli avvelenamenti sarebbe stata causata “da comportamenti emotivi e dallo stress”. Una decisione arrivata dopo che un comitato di 300 professori ha messo in guardia il governo dal “coprire quei crimini”. Un insabbiamento di tali eventi sarebbe visto come “allineamento e complicità” nei confronti degli avvenimenti stessi. Basti pensare che alcune famiglie si sono rivolte a laboratori analisi per capire l’origine della sostanza inalata, ma non hanno ricevuto alcuna risposta. “Ciò suggerisce che anche se non ci fosse il regime dietro, questi atti vengono pienamente tollerati da esso”, accusa Parisa Nazari.

“Sono molto cauta su questo punto, ma ritengo che i responsabili debbano essere ricercati all’interno del sistema”, spiega Giorgia Perletta, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali all’università di Bologna, con specifico interesse sulla realtà iraniana. “Probabilmente gli attacchi potrebbero essere stati causati da un gruppo interno al regime che però ha agito senza il parere favorevole di tutti. La Repubblica islamica, infatti, non è un monolite. Ma al suo interno ha correnti molto diverse tra loro. Alcune più riformiste, altre più più conservatrici”. 

Il regime utilizzerebbe questi eventi per distrarre il popolo e i giovani  dalle proteste in corso e attribuire le responsabilità a gruppi estremisti, come talebani e mujahidin. Tuttavia, secondo l’opinione di Nazari, “se ci fosse stato un attacco straniero dell’opposizione o di qualsiasi altro gruppo esterno, l’apparato di intelligence iraniano si sarebbe dato molto da fare per fermarli, invece non è stato fatto nulla”.  Si ipotizza che gli attacchi potrebbero essere un tentativo di suscitare terrore tra i principali attori delle proteste e dunque, impedire un progressivo avvicinamento di altri giovani alle manifestazioni. “Attaccare la cultura significa colpire le cause che hanno portato alle manifestazioni di oggi. Significa attaccare quel posto dove le giovani generazioni, attori principali delle mobilitazioni, si stanno formando”, dichiara Rassa Ghaffari in un’intervista a Lumsanews.

Le reazioni mondiali 

La morte di Mahsa Amini è stato il punto di non ritorno. L’inizio di una rivoluzione, con la mobilitazione dell’intero popolo. Non solo dei giovani. Secondo Goracci “si è rotto il patto sociale tra il potere e il popolo”, che aveva garantito la stabilità dalla rivoluzione del 1979. 

La vicenda si è estesa ben oltre i confini iraniani e ha toccato le principali associazioni e stati nazionali. Il punto di svolta sugli avvelenamenti è avvenuto quando un comitato di venti avvocati iraniani ha scritto una lettera all’ONU per chiedere un’indagine indipendente. L’invito è stato rivolto all’Organizzazione Mondiale della sanità, all’UNICEF, all’UNESCO, nonché al Comitato internazionale della Croce Rossa. 

Una risposta da Washington è arrivata il 6 marzo, quando l’addetto stampa del presidente Joe Biden, Karine Jean-Pierre, ha definito colpire l’istruzione e la cultura come vergognoso. In ritardo anche la presa di posizione dell’Unione europea. Solo il 16 marzo il Parlamento europeo ha votato una risoluzione sui casi. Chiara la condanna all’efferato tentativo di mettere a tacere donne e ragazze, dopo che i 27 Paesi dell’Ue hanno ribadito “il loro sostegno alla richiesta delle donne e delle ragazze iraniane di abolire tutte le discriminazioni sistemiche”. 

L’Italia ha votato una risoluzione sui diritti delle donne in Iran il 23 marzo ma, oltre alle parole, l’attivista Parisa Nazari ha chiesto azioni concrete. “Il governo italiano non deve riconoscere come legittimo un regime che uccide, che reprime e che non si fa scrupoli nell’annientare una generazione che sta portando avanti una lotta non violenta per la libertà e per la democrazia. Per noi iraniani è importante che questo regime non venga rafforzato”, continua l’attivista. L’Europa e l’Italia sono da tanti anni fuori dal territorio iraniano; potrebbero provare “a tornare in Iran con una capacità di azione politica riformatrice e accompagnare il paese a un rinnovamento”, commenta Lucia Goracci

Ragazza con ciocca di capelli durante una manifestazione contro la morte di Masha Amini. /Foto Ansa

L’istruzione in Iran

Per comprendere quanto gli avvelenamenti delle studentesse nelle scuole possano scuotere l’opinione pubblica iraniana, bisogna ricordare che tra il 1979 al 1982, durante il periodo della rivoluzione culturale, il nuovo regime ha cambiato profondamente il sistema scolastico. Il governo ha, da sempre, riconosciuto nella scuola il punto di partenza per la crescita di nuovi cittadini e ciò ha determinato l’estensione dell’istruzione anche alle donne. “Ne è derivata una cultura di regime, estremamente controllata. Sono stati allontanati intellettuali di spicco come il regista Abbas Kiarostami e questo ha fatto un grande danno alla cultura e alla conoscenza”, racconta Parisa Nazari. 

Sta di fatto che l’Iran è uno dei pochi Paesi islamici che ha garantito l’accesso alla cultura indistintamente a uomini e donne, “in un sistema pubblico”, spiega la ricercatrice Rassa Ghaffari a Lumsanews. “La retorica del regime si basa sul concetto che educando le donne, esse, a loro volta, sarebbero state in grado di educare i propri figli come nuovi cittadini con una retorica islamica. Aprire all’istruzione femminile è stato uno dei punti di forza del regime”, spiega  Ghaffari.

Secondo i dati della Banca Mondiale risalenti al 2021, il tasso di alfabetizzazione femminile al di sopra dei 15 anni è all’85%, un incremento molto elevato dall’inizio della rivoluzione culturale. La percentuale nel 1976 era al 24,4%. 

L’istruzione non ha avuto solo l’obiettivo di inserire il femminile nell’ambiente lavorativo. “Per molte famiglie l’istruzione delle figlie serve per garantire un matrimonio migliore. L’ascensore sociale, nel mondo iraniano, non passa solo attraverso l’istruzione ma anche attraverso il matrimonio”, dice Rassa Ghaffari.

Gli avvelenamenti stanno dunque colpendo la cultura, l’unico punto non negoziabile su cui il regime ha costruito l’intera nazione, stanno privando i giovani del diritto inalienabile all’istruzione. 

Il regime e i social media

Ma gli avvelenamenti danno anche il segnale di un ulteriore brutale avvertimento alle giovani generazioni che continuano a raggiungere le opinioni pubbliche interna e occidentali attraverso i social media. Il regime ha cercato di imporre e controllare la voglia di libertà dei giovani, ma non ci è riuscito. “La gioia di vivere è molto più forte della retorica del martirio proposta dalle autorità”, argomenta l’attivista Parisa Nazari

La voce dei giovani e delle donne è in prima linea nel territorio nazionale e internazionale, nonostante il tentativo di bloccare la circolazione di notizie con il blocco dei social network. Il 19 settembre le autorità iraniane hanno spento Internet, mentre, la chiusura di Instagram e Whatsapp è iniziata il 21 settembre. L’accesso è stato ristretto, ma la maggior parte delle persone si sono procurate un VPN, una rete privata virtuale che gli permette l’accesso nonostante le limitazioni. Le autorità sanno che “la rete nelle mani dei giovani è uno strumento molto pericoloso per lo stesso regime”.

Attraverso i social, i manifestanti comunicano tra di loro e, molto spesso, è il web che tiene in vita le proteste. I giovani traggono a proprio vantaggio la velocità di un tweet, il coinvolgimento di un video su TikTok, la veridicità di una storia di Instagram. Tutti mezzi utili per riunire il mondo giovanile sotto il grido unanime a favore dei diritti, il richiamo a scendere in piazza non singolarmente ma in gruppo per poter tornare nelle scuole senza paura. La rete offre ai giovani iraniani la possibilità di sentirsi simili agli altri ragazzi del mondo. E in effetti lo sono, agiscono come loro, nonostante ciò potrebbe portare a arresti e incriminazioni. Attraverso i social i giovani mostrano al mondo ciò che sta succedendo e che il regime vuole celare. 

L’immagine delle ragazze con i sintomi di avvelenamento negli ospedali, le grida dei genitori che chiedono spiegazioni alle autorità, le ragazze che ballano senza hijab, mostrano con grande veridicità ciò che sta avvenendo. La vicenda iraniana sembra dimostrare la grande impotenza della censura di regime, per quanto sofisticata possa essere, dinnanzi alle nuove tecnologie.