La corsa delle imprese agli aiuti di Stato

“Se lo Stato finanzia le aziende, deve avere un posto nei Consigli di amministrazione”. È bastato un titolo di giornale per far esplodere la polemica su nazionalizzazioni e aiuti di Stato, temi che fanno sempre discutere in Italia e nell’Unione europea. Ancora di più in un periodo in cui l’economia è rimasta segnata dal lockdown con l’emergenza Coronavirus che ha messo in ginocchio interi settori. Tutto parte da un’intervista del 7 maggio rilasciata a La Stampa dal vicesegretario del Partito democratico, Andrea Orlando, che riporta il suddetto titolo. Puntualmente, piovono attacchi da parte degli schieramenti politici. Il primo a tuonare è l’ex compagno di partito e governo, il senatore e fondatore di Italia viva, Matteo Renzi, con l’accusa di “sovietizzazione dell’Italia”. La definisce invece “roba da Venezuela” Alessandro Cattaneo, deputato di Forza Italia. “No allo Stato nella gestione delle aziende”, afferma il segretario di Più Europa, Benedetto Della Vedova.

Un putiferio tale che deve arrivare la precisazione da parte dell’ex ministro della Giustizia dei governi Renzi e Gentiloni: “Nessuno ha proposto che lo Stato entri nella governance delle imprese – ha chiarito Orlando – né che si proceda a nazionalizzazioni. Il tema è valutare se lo Stato debba entrare per un determinato periodo, in modo da garantire che l’impresa mantenga gli impegni assunti nel momento in cui riceve finanziamenti a fondo perduto da parte dello Stato”. Obiettivo: evitare delocalizzazioni, riduzioni della manodopera e ottenere interventi rivolti alla sostenibilità. Al centro della questione c’è l’economia del Paese e sul tavolo del governo sono molti i dossier aperti: Alitalia, Autostrade, Fiat ma non solo.

IL VIA LIBERA DELL’UNIONE EUROPEA
In ambito europeo, gli aiuti di Stato erano vietati dall’Unione, ma l’emergenza virus ha ridisegnato le norme, allentandole: “La Commissione ha adottato dal 19 marzo il Temporary Framework, che consente ai Paesi membri di utilizzare la piena flessibilità per sostenere l’economia in questi tempi difficili, garantendo la liquidità sufficiente per le imprese. Dall’8 maggio gli Stati possono inoltre rinviare le tasse e sovvenzionare il lavoro a breve termine in tutti i settori”, spiega a Lumsanews Arianna Podestà, la portavoce della Commissione europea per la Concorrenza.
Fino a giugno 2021 saranno consentiti, dunque, finanziamenti diretti e agevolazioni fiscali fino a 800.000 euro per impresa, ma con una serie di paletti: gli aiuti non riguarderanno aziende già in crisi nel 2019, verrà vietata la distribuzione di bonus e dividendi, sarà previsto un tempo limite di sei anni per il ritorno alle redditività delle imprese, che dovranno anche specificare il modo in cui impiegheranno gli aiuti ricevuti e garantire il rispetto legato alle transizioni verdi e digitali.

All’interno dell’Unione europea c’è una situazione di squilibrio sugli aiuti di Stato. La Commissione ha autorizzato i diversi Paesi ad erogare in totale 2.130 miliardi di euro: circa 1.000 vengono utilizzati dalla Germania. Seguono Italia e Francia, entrambe tra i 350-300 miliardi, Spagna e Regno Unito (non ancora uscito dall’Ue) tra gli 80-90 miliardi e infine il 2,5%, o meno, gli altri Paesi.
Questo squilibrio avviene perché le richieste di autorizzazione agli aiuti dipendono dai bilanci dei singoli Stati: la Germania è la più forte nell’Unione e può garantire maggiori fondi rispetto a Paesi con un debito elevato. Ma in questo modo c’è il rischio di falsare il mercato, con le nazioni più ricche che possono fornire alle proprie aziende maggiore liquidità rispetto a quelle più deboli, creando una supremazia. “Si accentuano degli squilibri già esistenti”, afferma l’onorevole Stefano Fassina, ex viceministro dell’Economia nel governo Letta, intervistato da Lumsanews. “Sicuramente vi sono enormi differenze nell’ammontare degli aiuti concessi dagli Stati – chiarisce Arianna Podestà –  È necessaria una risposta europea forte per evitare un’ulteriore frammentazione del mercato interno. Va ricordato, comunque, che l’interconnessione dell’economia europea ha una ricaduta positiva su tutti i Paesi dell’Unione”.

GLI AIUTI ALLE COMPAGNIE AEREE
La prospettiva di una nazionalizzazione tocca soprattutto le compagnie aeree, colpite fortemente dal blocco delle frontiere. Nel nostro Paese, Alitalia ha già ricevuto 350 milioni con il decreto Cura Italia e dovrebbe ottenere 3 miliardi dal decreto Rilancio per costituire una nuova società, controllata dal Ministero dell’Economia o a partecipazione prevalentemente pubblica. Da quando è stata commissariata, nel 2016, alla compagnia sono stati concessi una serie di prestiti ponte: soldi bruciati e mai restituiti, che si aggiungono a quelli degli anni passati, portando così adesso il totale a circa 12 miliardi di euro. L’idea è di costituire un’Alitalia più piccola con voli nazionali e internazionali, riducendo le rotte intercontinentali. Secondo il professor Fabio Padovano, docente di Scienza delle Finanze all’Università degli Studi Roma Tre, l’ingresso dello Stato non cambierà le sorti della compagnia: “Alitalia viene continuamente salvata per interessi politici. Continuerà a essere in perdita e a pesare sui contribuenti. Un Paese come il nostro, con un debito pubblico molto elevato, non se lo può permettere”.
Non è soltanto la nostra compagnia di bandiera a ricevere cospicui aiuti di Stato: per esempio i gruppi Air France-Klm, International Airlines Group (che riunisce le spagnole Iberia e Vueling), ma anche Lufthansa in Germania, dove lo Stato tedesco medita di entrare con il 20% del capitale.
Contesta i finanziamenti la low cost irlandese Ryanair, pronta a fare ricorso alla Commissione Ue. Il fondatore e amministratore delegato, Michael O’Leary punta il dito contro Alitalia: “È come un tossico che sopravvive solo grazie agli aiuti di Stato. E non ha mai dato profitti”.
“I soldi per Alitalia sono finalizzati a riavviare un servizio pubblico fondamentale – sottolinea Fassina – Ryanair prima dovrebbe smettere di fare dumping sociale e fiscale”.

NON SOLO ALITALIA
Ma non è soltanto la compagnia aerea a ricevere finanziamenti pubblici. Il caso più eclatante è quello di Fiat Chrysler Automobiles: l’azienda di automobili italiana, con sede legale in Olanda e fiscale nel Regno Unito – dove ci sono maggiori agevolazioni rispetto al nostro Paese -, ha chiesto circa 6,3 miliardi di euro di prestito con garanzia pubblica, ricevendo l’assenso da parte di Intesa Sanpaolo. Per il via libera definitivo sarà necessaria l’approvazione da parte di Sace, società del gruppo Cassa Depositi e Prestiti. Il governo, tramite il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha precisato che “con il prestito, Fca poi deve investire in Italia” e infatti il finanziamento è destinato esclusivamente ai 16 stabilimenti italiani del gruppo.
Anche Atlantia, la società della famiglia Benetton e azionista di maggioranza di Autostrade per l’Italia, avrebbe chiesto 1,25 miliardi, minacciando di bloccare gli investimenti sulla rete autostradale in mancanza della garanzia statale sul prestito. “Inaccettabile, visto che i Benetton hanno mietuto rendite miliardarie grazie a concessioni vergognose”, ci dice Fassina. Ma per il governo ci sono anche altri fronti caldi che si presentano nuovamente: il futuro del colosso dell’acciaio ArcelorMittal, della società di componentistica elettronica Jabil e dell’azienda di elettrodomestici Whirlpool.
Una partita tra Stato e imprese, con in mezzo i lavoratori e l’economia del Paese che ha subito un crollo del Pil nel primo trimestre del 4,7%, con una stima del -9,5% per il 2020, secondo la Commissione europea. Per l’Italia e le aziende inizia adesso una nuova fase: rimettersi in moto per risollevarsi.