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La proposta di Razzante"Per le policy dei socialservono regole universali"

Il professore di diritto a LumsaNews "Un problema l'opacità degli algoritmi"

Ruben Razzante è docente di Diritto dell’informazione e della comunicazione presso l’Università Cattolica di Milano, l’Università Lumsa di Roma e la Pontificia Università della Santa Croce. È giornalista professionista e fondatore di un portale online sul diritto dell’informazione. Lumsanews gli ha chiesto di approfondire il concetto giuridico di social network e i loro limiti di legge.

Libertà di espressione e responsabilità di ciò che viene pubblicato sui social. Dove sta il confine?

Diciamo che per fortuna le cose sono molto cambiate negli ultimi dieci-quindici anni perché i tribunali hanno cominciato a condannare gli utenti che scrivevano sui social violando la legge. Prima c’era solo da sperare che l’autore del post rimuovesse, correggesse o rettificasse. Poi sono iniziate le denunce e adesso ci sono tante condanne per diffamazione online. Questo vuol dire che la tutela dei diritti è molto più ampia adesso sui social e la responsabilità di chi posta contenuti è a tutti gli effetti assimilabile a quella di chi scrive su giornali o pronuncia sui canali televisivi delle offese nei confronti di qualcuno.

Nel caso specifico di Facebook e Twitter quali sono le principali condizioni d’uso che tutti gli utenti devono sottoscrivere?

Queste norme sono state aggiornate più volte. All’inizio erano molto meno garantiste: ti iscrivevi, non leggevi neppure, mettevi una serie di consensi per entrare il prima possibile e questo ti esponeva anche a rischi futuri. Adesso i social si rendono conto che devono proteggere maggiormente la privacy e i diritti delle persone. C’è anche il GDPR, il Regolamento europeo sulla privacy, in vigore dal maggio 2018 anche in Italia. Prevede degli obblighi precisi per i colossi del web, che possono trattare i nostri dati solo con determinate finalità e con il nostro consenso. Al di là del rispetto delle leggi da parte di questi colossi, c’è anche la nostra autodisciplina. Se io pubblico un contenuto sensibile non ho la garanzia che se lo rimuovo dopo mezz’ora, questo non sia già stato salvato da qualche parte.

Quindi l’espulsione di Donald Trump da Twitter è legittima?

La questione è controversa. Da un certo punto di vista Trump è un utente come tutti e quindi deve rispettare le condizioni che sottoscrive. Peraltro le aziende private non possono intervenire sul terreno di un bene pubblico come la libertà di espressione. La censura è una forma di negazione della libertà di espressione concessa e riconosciuta da norme internazionali: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali del 4 novembre 1950 e tante altre. Allora questa libertà di espressione fin dove può spingersi? È chiaro che se ci sono dei contenuti a sfondo razziale che offendono la dignità di una etnia si può intervenire perché ci sono già delle leggi che lo regolamentano. Ma affidare le chiavi della nostra libertà di espressione ad aziende che fanno business e che perseguono degli utili utilizzando i nostri dati quando gli fa comodo pone certamente un problema di democrazia.

Facebook però ha mantenuto una posizione meno drastica e infatti non ha neanche eliminato, durante la campagna elettorale di Trump, alcuni contenuti che Twitter ha censurato.

Ci sono state differenziazioni: anche i social devono autoregolamentarsi e accettare di sottostare a delle norme, considerato che hanno dei bilanci che spesso economicamente sono superiori a quelli degli Stati. Quindi hanno un potere enorme.

Ruben Razzante

Il docente di Diritto dell’informazione e della comunicazione Ruben Razzante

Le policy quindi sono soggettive. E la loro applicazione è arbitraria perché può essere interpretata e applicata diversamente.

Sì, ci sono alcune questioni controverse. In linea di massima bisogna definire delle policy chiare, affinché non ci siano più questi casi, che sono devastanti anche per il ruolo stesso dei social e rischiano di produrre danni alle democrazie. Se l’hanno fatto con Trump, lo possono fare anche con tutti i capi di Stato.

In questo contesto come si inseriscono gli algoritmi dei social? Hanno anch’essi una responsabilità dei confronti della libertà di espressione in rete?

Il problema è rappresentato dalla opacità di questi algoritmi. Cioè al fatto che non si sa che cosa ci sia dietro, quali siano i criteri con cui vengono concepiti. Sono segreti industriali che consentono a queste piattaforme di incrementare il traffico, di indirizzare gli utenti sulla base di alchimie aziendali che noi non conosciamo. Allora dal punto di vista democratico ci sono due profili: il primo è che esiste la libertà di iniziativa economica, la libertà di impresa, che consente a queste aziende di sfruttare al meglio i loro segreti industriali, quindi anche gli algoritmi. Quando però il loro impiego va a impattare su un bene pubblico che è quello dell’informazione e della circolazione delle notizie allora può scattare un cortocircuito tra la tutela di un diritto costituzionale e intangibile che è quello ad essere informati e la libertà di iniziativa economica dei colossi del web. C’è un aspetto sicuramente positivo dell’Ai, perché contribuisce a depurare lo spazio virtuale da contenuti illeciti, illegali e contrari ai diritti. Dall’altro c’è la discrezionalità di queste aziende, che non sappiamo mai fin dove arriva e che può portare anche a manipolazioni, censure, cancellazioni di opinioni non gradite.

Il rischio è quello di condizionare la libertà di espressione e la libera circolazione dell’informazione. Cosa si può fare per difendere questi diritti?

La mia proposta è che occorre uno statuto internazionale dei social, che valga e sia uniforme per tutti. Il quadro normativo andrebbe migliorato. Bisognerebbe prevedere dei meccanismi di imputabilità, di responsabilizzazione maggiore di queste piattaforme, che legittimamente portano avanti il proprio business, trattando i dati degli utenti con il loro consenso, ma devono anche sottostare alle norme del diritto internazionale, che vanno migliorate e potenziate. Le norme nazionali invece hanno poco impatto perché la rete è per sua stessa natura sovranazionale. Servirebbe una sinergia tra le Authority nazionali, che dovrebbero agire di concerto, per cui il cittadino italiano che va in Danimarca e il danese che si reca nel nostro Paese, in caso di eventuali violazioni, dovrebbero ricevere lo stesso trattamento a prescindere dal territorio in cui si trovano. È necessario assicurare certezze giurisprudenziali, per dare stabilità anche al diritto della rete.

Claudia Torrisi

Mi chiamo Claudia Torrisi, ho una laurea triennale in Lettere moderne e una magistrale in Editoria e scrittura, conclusa con una tesi riguardante la disinformazione e il fenomeno deepfake.