“Le carceri sono il dramma della Siria. A colpirmi sono state le immagini di alcune donne con bambini rinchiuse in carcere. I figli non avevano mai visto cosa c’era fuori. Micheal Kilo, un oppositore scomparso anni fa, raccontò che una volta in prigione vide un bimbo e gli chiese se sapeva che cosa fossero gli uccellini. Il bambino disse di no. Questa era la Siria”. Lo scrittore italo-siriano, Shady Hamadi, racconta a Lumsanews l’orrore dei “mattatoi” durante il regime di Bashar al Assad. Una cicatrice ancora aperta. A un anno dalla caduta del regime, la speranza e l’euforia dei festeggiamenti si mescolano all’incertezza sul futuro. Il presidente ad interim, Ahmed Al Sharaa, gode del consenso della maggioranza della popolazione ed è riuscito ad accreditarsi con successo presso le cancellerie occidentali. Ma dopo 13 anni di guerra civile e oltre 50 di regime degli Assad, il Paese è tutto da rifondare. La Banca Mondiale stima che per la ricostruzione saranno necessari 216 miliardi di dollari. Davide Chiarot, operatore umanitario della Caritas ad Aleppo, rivela che “sono almeno 4 milioni i siriani in patria, ma lontani dalle loro zone di origine. Inoltre l’80% della popolazione vive ancora grazie agli aiuti umanitari”.
Il percorso verso la democrazia
Lo scorso ottobre si sono tenute le elezioni parlamentari, in forma indiretta, senza che la popolazione si recasse alle urne. “È un inizio”, spiega Hamadi, secondo cui “ci vorranno decenni” per giungere a uno Stato democratico. Secondo l’analista Ispi, Matteo Colombo, “non è scontato che si arrivi alla democrazia. Un’altra ipotesi è quella di un sistema ibrido semi-democratico, in cui ci sia un minimo di dissenso e di opposizione organizzata, ma poi sia chiaro chi comandi”.
La multietnicità come elemento di squilibrio
La Siria è un Paese pluriconfessionale e multietnico. La maggioranza della popolazione è di etnia araba e di religione musulmana sunnita, ma convivono molte altre minoranze religiose (come alawiti e cristiani), etniche (curdi) ed etnico-religiose (drusi). Quest’anno gli alawiti hanno subito violenze nella regione della costa mediterranea di Latakia. La loro confessione, di derivazione islamica sciita, è uguale a quella della famiglia Assad: “pagano lo scotto di essere stati la colonna portante del regime, torturando migliaia di giovani sunniti”, afferma Hamadi.
La questione dei drusi, spiega Alessandro Scipione, giornalista dell’Agenzia Nova esperto di Medio Oriente, ha tirato in gioco Israele, che “ha occupato non solo la zona cuscinetto delle Alture del Golan, ma ha condotto una vera e propria avanzata nel governatorato meridionale di Sweida, a protezione dei drusi, presenti anche in Israele”. Scipione sottolinea che alcuni sceicchi e leader drusi hanno addirittura chiesto l’annessione a Israele. “Questa istanza ha innescato una veemente reazione da parte dei gruppi sunniti, anche estremisti radicali, che sono partiti da zone lontane come Deir ez Zor – nel nord-est del Paese e distante quasi 600 chilometri — per compiere una pulizia etnica contro i drusi”.
Il futuro delle Forze democratiche siriane
I curdi sono un’altra componente importante della Siria. La Turchia, la cui influenza in Siria è cresciuta in seguito alla presa del potere da parte di Al Sharaa, vede i curdi siriani come un’estensione del Pkk. Le Forze democratiche siriane (Fds), formazione militare a maggioranza curda sostenuta dagli Stati Uniti, controllano l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, nota anche come Rojava. Al Sharaa e Mazloum Abdi, comandante delle Fds, hanno firmato un accordo per integrare “tutte le istituzioni civili e militari” del Rojava sotto lo Stato siriano, senza però che sia stato ancora attuato. Al Sharaa punta alla riunificazione sotto l’egida del governo centrale, mentre le Fds premono per un modello decentralizzato.
“Qualora avesse l’opportunità di schiacciare i curdi, la Turchia non esiterebbe, perché per loro sono un problema”, spiega Scipione, “per cui tutto ruota intorno a quanto gli statunitensi sono disposti a proteggerli. Inoltre l’attuale leadership li considera collaborazionisti dell’ex regime, per via di un’alleanza contro lo Stato Islamico (Is)”. Infine il giornalista si sofferma sugli Usa: “Hanno intenzione di mantenere una presenza nel nord della Siria. Finché rimarranno, difficilmente la Turchia potrà completare quella cintura di sicurezza, che ha portato il Pkk a rinunciare alla lotta armata”. Proprio questa scelta del Pkk però, secondo Colombo, rende meno vitale per la Turchia assicurarsi che non ci siano attacchi che partano dalla Siria verso il suo territorio.
Tra autonomia e centralità
L’analista dell’Ispi Colombo, sull’ipotesi della creazione di un’entità federale autonoma per i curdi siriani, sul modello del Kurdistan iracheno, è cauto, ipotizzando invece “un modello ibrido tra quello centralizzato e autonomista”.
Lo Stato Islamico in Siria
“L’Is è ancora presente, soprattutto nelle zone desertiche tra Palmira e Deir ez Zor”, spiega Colombo, aggiungendo che “il governo siriano è entrato a far parte della Coalizione anti-Daesh”. Recentemente, nella zona di Palmira, due soldati e un civile statunitensi sono stati uccisi da un uomo armato appartenente all’Is, durante una delle prime missioni congiunte tra la coalizione e le forze siriane. Trump ha promesso una risposta. In questo contesto Scipione ricorda che Al Sharaa “ha militato per molti anni all’interno dei gruppi jihadisti e ha collaborato anche con l’Is, anche se poi ne ha preso le distanze”. La stessa “coalizione che sostiene il presidente ad interim, i suoi ex combattenti, è composta da persone che in parte hanno un passato jihadista”, aggiunge Colombo.
Il ruolo della Russia e dei Paesi del Golfo
“La Russia ha mantenuto il contratto sulle basi siriane di Tartus (navale, che offre lo sbocco sul Mediterraneo) e di Khmeimim (aerea, vicino Latakia). Nonostante ciò il Cremlino non ha più un alleato in Siria, questo è evidente. Potrebbe avere un partner per alcuni temi”, chiarisce Colombo. La visita di Al Sharaa a Mosca dello scorso ottobre, dove ha incontrato Putin, mostra come il canale diplomatico resti aperto.
Infine, i Paesi del Golfo stanno investendo molto in Siria. “Cercano di assicurarsi la propria indipendenza alimentare e la Siria è un potenziale paniere a basso costo. Un altro tema riguarda le infrastrutture, con l’esportazione di petrolio e gas, attraverso la Siria. Infine il settore immobiliare, con la ricostruzione e con i conseguenti ritorni economici”, spiega Colombo. “Oggi c’è speranza nel domani, c’è un futuro incerto che non sembra essere già scritto. Le sfide però sono tante” scrive Hamadi, secondo il quale è fondamentale che Al Sharaa riesca a evitare che il Paese si frantumi in cantoni confessionali.


