Libia, il caos di una guerra che destabilizza il Mediterraneo

L’accordo di tregua raggiunto a Berlino lo scorso 19 gennaio sembra essere l’ennesimo pezzo di carta della crisi libica stracciato dalle armi. È stato bombardato, più volte nel corso della settimana, l’aeroporto di Mitiga a Tripoli e continuano le schermaglie, con rispettive accuse reciproche di violare il cessate il fuoco, mosse da entrambe le fazioni in lotta.

La guerra civile oggi e le forze in campo

Fazioni con a capo i due grandi nemici che non si sono voluti incontrare neanche a Berlino, dove hanno tuttavia, entrambi, siglato l’accordo di tregua. Haftar, 76 anni, è l’indiscusso leader della Cirenaica e dallo scorso aprile ha lanciato l’offensiva per la conquista di Tripoli, e Sarraj, il sessantenne presidente del governo libico, riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale. Rappresentano gli schieramenti che animano la sanguinosa guerra civile nel Paese nord-africano, e godono di importanti sponsor internazionali. Hanno messo a disposizione del generale Haftar ingenti risorse belliche ed economiche Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Russia e in maniera non completamente dichiarata la Francia. Gode invece del sostegno italiano, del Qatar e di quello turco, il presidente Sarraj. Proprio Ankara e Tripoli hanno recentemente rinsaldato l’alleanza siglando un accordo che prevede l’avvio di trivellazioni nei fondali libici per l’estrazione del gas e l’invio di un contingente militare turco in difesa dei territori ancora sotto il controllo governativo. L’attivismo e l’ingerenza di attori esterni nello scenario libico sono dettati da agende e interessi legati alle risorse energetiche presenti in Libia e all’esigenza di riconquistare spazi strategici nel Mar Mediterraneo, oltre all’obiettivo, comune a tutti, di contrastare il proliferare del terrorismo jihadista. In questa intricata rete di relazioni, si sono ritagliate un ruolo di primaria importanza Russia e Turchia, sostenendo le due diverse fazioni, sono comunque riuscite a trovare una convergenza, “ricreando uno schema già collaudato in Siria”, come spiega a Lumsanews Francesco Salesio Schiavi, analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale). “Vladimir Putin e Racep Erdogan sono interessati a far sedere al tavolo delle trattative Haftar e Sarraj, per tutelare entrambi gli interessi nell’area. Questo non confligge con la strategia comune che perseguono in campo energetico e ultimamente anche militare”, prosegue Schiavi. “La costruzione del gasdotto Turkstream ha rinsaldato il rapporto tra i due Paesi. La Turchia, quasi priva di materie prime, compra il gas a prezzi vantaggiosi e la Russia può esportarlo in Europa bypassando l’Ucraina”, sottolinea ancora Schiavi”.

Combattenti delle milizie libiche

Il ruolo dell’Italia e gli interessi in gioco

Nello scacchiere libico, l’Italia, sembra invece aver perso il ruolo di pedina fondamentale. Un ruolo da sempre esercitato sia per il passato coloniale, sia per la posizione strategica di primo partner commerciale del Paese africano. Al momento sono circa 50 le aziende italiane che hanno rapporti con la Libia, con oltre 60.000 lavoratori coinvolti, compresi quelli dell’indotto, e un valore complessivo di scambi pari a circa 11 miliardi. Il rapporto privilegiato tra i due Paesi si è consolidato sotto il regime di Gheddafi. In cambio di investimenti italiani il dittatore libico garantiva prezzi di favore per gas e petrolio e arginava le migrazioni verso le coste italiane, trattenendo nei centri di accoglienza i rifugiati provenienti dall’Africa subsahariana. Dopo la rivoluzione del 2011, favorita dall’intervento militare Nato appoggiato, non troppo convintamente, anche dal governo presieduto da Silvio Berlusconi, l’Italia ha perso il suo interlocutore e le posizioni di vantaggio che poteva vantare in Libia. Da allora la strategia diplomatica del nostro Paese è sempre stata quella di favorire, con la mediazione delle Nazioni Unite, la nascita di un governo libico stabile, in grado di essere un interlocutore credibile. Sosteniamo Al-Sarraj dal suo insediamento a Tripoli, avvenuto nel 2015, ma non abbiamo più il pallino del gioco in mano. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha provato nelle scorse settimane la mossa che avrebbe rimesso l’Italia al centro della scena: far incontrare a Roma Haftar e Sarraj e strappare una stretta di mano tra i due contendenti. Il tentativo però è naufragato e, anzi, si è rivelato controproducente visto che Sarraj, una volta saputo della presenza del rivale a Roma ha declinato l’invito decidendo, mentre era in volo, di non atterrare in Italia. E da allora i rapporti si sono raffreddati.

Siamo dunque definitivamente fuori dai giochi e destinati a subire le conseguenze della progressiva perdita di influenza in Libia?  Non secondo Fabrizio Maronta, consigliere scientifico e responsabile delle relazioni internazionali della rivista di geopolitica Limes, che spiega a Lumsanews come “la presenza italiana in Libia, nonostante il clima di incertezza, sia difficile da scalzare”. “L’importanza di un colosso come l’Eni e i rapporti di fiducia instaurati nel tempo con i libici non sono un patrimonio che si disperde facilmente”, sottolinea Maronta, aggiungendo “una constatazione cinica ma fattuale” sulla questione migranti: “Il caos che regna ora in Libia aiuta, paradossalmente a tenere il fenomeno sotto controllo”.

Nel frattempo, mentre tutti sono impegnati a giocare la loro partita, la Libia si trasforma ogni giorno di più in un inferno di bombe e pallottole e la popolazione civile è allo stremo. In questo contesto si inseriscono anche le perdite economiche dovute al blocco delle valvole degli oleodotti imposto dalle forze del generale Haftar. Secondo una stima della Noc, l’agenzia petrolifera nazionale libica, in una settimana il danno è quantificabile in 318 milioni di dollari.

Flussi commerciali tra Italia e Libia