Myanmar, anatomia di un golpe

Più di 2mila arresti, almeno 250 morti, centinaia di proteste e migliaia di feriti, con torture e decessi anche in carcere. È il tragico bilancio, ancora provvisorio, delle proteste in Myanmar (o ex Birmania), dopo il colpo di stato militare che lo scorso 1° febbraio ha destituito il governo democratico del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi e imposto lo stato di emergenza per un anno.

Il golpe, ufficialmente giustificato con presunti brogli elettorali nelle elezioni politiche dello scorso 8 novembre, in realtà nasconde il timore dei militari di perdere la presa nel Paese e nelle relazioni internazionali. A questo si aggiungono le riforme che il nuovo esecutivo avrebbe realizzato, colpendo l’enorme potere economico del cartello dei soldati. Da qui l’operazione che ha messo fine al progetto di democratizzazione iniziato nel 2008. Processo che Francesco Tamburini, professore di Storia e Istituzioni dei Paesi afroasiatici dell’Università di Pisa, spiega a LumsaNews essere “incompiuto”, in quanto la democrazia birmana è rimasta su un piano “procedurale, senza mai diventare veramente sostanziale”.

Ma non si può ignorare anche la rilevanza che il Paese ha per gli Stati che lo circondano. Il Myanmar, infatti, come ci dice Lorenzo Di Muro, giornalista di Limes, è “un paese centrale per gli equilibri del Sud Est Asiatico”, proprio perché punto di incontro di diversi interessi. È fondamentale per la Cina, che ha necessità di aggirare lo stretto di Malacca, controllato dagli americani, per diversificare l’approvvigionamento energetico in caso di blocco dello stesso stretto. Pechino ha investito nel paese costruendo un oleodotto e un gasdotto che collegano la regione Yunnan e la ex Birmania, integrandola poi nella Belt and Road Initiative, ovvero il progetto infrastrutturale e di investimenti noto come “Via della Seta”. ll Myanmar, ricco di materie prime, è importante per lo sviluppo delle regioni cinesi più arretrate, come lo stesso Yunnan. Ma, come spiega Di Muro, è fondamentale anche nel lungo periodo, per il controllo delle rotte marittime dell’Oceano Indiano. Controllo conteso con gli Usa e loro alleati come l’India, rivale regionale della Cina che ha interesse a evitare che il Myanmar scivoli nell’orbita di Pechino. In questo senso, da diversi anni, ci racconta il giornalista di Limes, “nelle isole Andamane e Nicobare, all’estremità occidentale dello stretto di Malacca, Nuova Delhi ha installato un comando congiunto per monitorare la proiezione della Cina nell’Oceano Indiano, in quanto vede quel braccio di mare come propria area di influenza”.

A questo si aggiungono gli Usa, che vogliono impedire che questo Stato finisca nelle mani cinesi perché “se la Cina riuscisse ad alterare gli equilibri marittimi nel Sud-Est asiatico, potrebbe sfidare il controllo americano di alcune tra le principali rotte marittime mondiali”.

L’aspetto curioso è che nessuno dei Paesi dell’area del Sud-est asiatico ha ufficialmente condannato il colpo di Stato, limitandosi a chiedere la fine delle violenze. Il presidente dell’Indonesia, Joko Widodo, il 19 marzo ha però chiesto un summit dell’Asean (Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico) per affrontare la questione birmana, affinché sia ripristinata la democrazia. Nonostante questo, sembra che la priorità di tutti sia che il Myanmar rimanga “stabile” per garantire i rispettivi interessi economici e/o politici. E mettersi contro i soldati, egoisticamente, potrebbe rendere la situazione ancora più esplosiva.

Questo è particolarmente vero per la Cina, che come ci spiega Padre Bernardo Cervellera, direttore di Asia news, “ha interesse a salvaguardare i propri interessi. In un certo senso, a Pechino non interessa tanto che sia la giunta militare o Aung San Suu Kyi a governare, purché venga tutelato ciò di cui ha bisogno”. Ed è il motivo per cui, i rapporti tra Myanmar e Cina erano stati mantenuti anche sotto il governo di Suu Kyi. Al momento del golpe, però, il Dragone ha bloccato la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che condannava l’accaduto, definendolo una questione interna al paese. Tuttavia, al di là delle dichiarazioni, il ruolo della Cina pare sia stato più ampio. Padre Cervellera ci rivela che esiste “un documento segreto”, secondo cui un emissario del ministero degli Esteri cinese ha incontrato la giunta militare “chiedendo di salvaguardare gli interessi cinesi. Quindi, in un certo senso, Pechino ha riconosciuto i generali”.

Diversa è la soluzione adottata da Washington, che non solo ha condannato il colpo di Stato dei militari, ma ha anche posto delle sanzioni economiche contro i vertici militari. Inoltre, il 22 marzo l’Alto Rappresentante per l’Ue, Josep Borrell, ha dichiarato che verranno sanzionate 11 persone “coinvolte nel colpo di Stato e nella repressione dei manifestanti”. Si tratta di una risposta efficace? Per la segretaria generale dell’associazione “Italia-Birmania Insieme”, Cecilia Brighi, le sanzioni economiche mirate, e non solo quelle rivolte a soggetti, sono “misure fondamentali” per fare pressione sul governo, perché colpiscono i grandi introiti del cartello dei soldati. Altri, come Tamburini, parlano di una soluzione che nel lungo periodo può rivelarsi un boomerang. “Io non ricordo una situazione politica che sia migliorata grazie alle sanzioni- spiega a LumsaNews- dal conflitto tra Israele e Palestina a Cuba, dalla Russia all’Iraq, fino alla Libia, questi strumenti hanno avuto l’effetto di “rafforzare, anziché indebolire, i regimi”.

Al di là degli interessi geopolitici, però, non mancano attività di sostegno di associazioni e privati occidentali alla popolazione birmana, come quelle portate avanti proprio dall’associazione “Italia-Birmania Insieme”. Negli ultimi giorni, poi, i membri dell’organizzazione stanno cercando di fare luce sulla questione del ritrovamento di pallottole di matrice italiana in territorio birmano. Vicenda su cui il deputato di LeU Erasmo Palazzotto ha chiesto un intervento in aula del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Dato il divieto per l’Italia di vendere armi al Myanmar, è probabile che ci sia stata una triangolazione tra impresa italiana, ex Birmania e uno o più intermediari. Si tratta, secondo Brighi, di “soggetti o imprese, che dichiarano di comprare per altri Paesi e poi esportano lì”. Per questo motivo l’associazione sta cercando di ricostruire la filiera delle esportazioni.

Tuttavia, nonostante l’attività di queste associazioni e le parole di sostegno provenienti da autorità e personaggi pubblici (come papa Francesco), senza un vero e proprio aiuto della comunità internazionale il popolo birmano rischia di rimanere oppresso e isolato. Mentre gli interessi di alcune potenze regionali o d’oltreoceano potrebbero continuare ad essere tutelati, addirittura meglio di prima.