Claudio Panzera è professore di Diritto costituzionale presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria e cofondatore del Centro di Ricerca sulle Cittadinanze. A Lumsanews descrive il meccanismo che porta a definire un migrante “illegale”.
Come funziona la legalizzazione in Europa per i cittadini di un Paese terzo?
“Nell’Ue non esiste uno status giuridico “unico” dello straniero, ma una pluralità basata su presupposti diversi. Le regole, specie quelle nazionali, mutano rapidamente in base alle contingenze storiche e alle politiche prevalenti. Negli ultimi 15 anni c’è stato un generale aumento dei controlli alle frontiere esterne, ma non sono mancate azioni “coraggiose”: la Germania ha accolto un milione di profughi siriani tra il 2015 e 2016. Di recente i Paesi europei hanno offerto protezione temporanea a più di 4 milioni di ucraini”.
In Italia l’immigrazione come viene gestita?
“Da decenni è trattata quasi esclusivamente in chiave emergenziale e in modo bulimico, con un eccesso di regolazione. Sono regimi normativi brevi e soggetti a continue modifiche, quando in realtà buona parte dei problemi sono di carattere burocratico e gestionale. In passato, si è fatto ricorso anche a sanatorie legislative per risolvere parte di queste difficoltà”.
Quali sono i maggiori ostacoli affronta uno straniero che voglia legalizzare il proprio status?
“Prima di tutto c’è il problema dell’ingresso. Le vie legali, stabilite da regole comuni europee e da regimi nazionali, riguardano per esempio motivi lavorativi, familiari, di studio o di ricerca, ma e ciascuno Stato decide il numero di ingressi. La loro restrizione ha scaricato parte della pressione migratoria sulla via di ingresso legata all’asilo. Per gestire questi grandi numeri è aumentata la severità nell’accesso alla protezione internazionale. Il fine è quello di impedirne l’abuso, ma il prezzo è una pesante compromissione dei diritti dei migranti”.
Ci sono ostacoli anche per chi riesce a ottenere un permesso?
“Sì, riguardano la stabilità della residenza. Chi è già entrato e risiede in modo regolare, deve assicurarsi una stabilità del soggiorno. Ma rinnovarlo genera a volte una vera e propria corsa a ostacoli. Bisognerebbe intervenire rendendo burocraticamente più semplice il rinnovo e aumentandone la durata”.
Come viene stabilito che qualcuno non ha il diritto di risiedere in Unione europea?
“Può avvenire alla frontiera o sul territorio. L’autorità amministrativa accerta la condizione di irregolarità e la decisione ha effetto immediato. Il migrante può ricorrere a un giudice tutelare i propri diritti, ma la procedura a volte è così stringente e difficoltosa da far dubitare che la tutela sia effettiva. L’espulsione può anche essere preceduta dal trattenimento nei centri dedicati. Questo non dovrebbe mai avvenire in violazione del principio internazionale di non-respingimento, ma la prassi testimonia che accade anche questo”.
Cosa cambierebbe con la proposta della Commissione europea sui rimpatri?
“La direttiva vigente dal 2008 è attuata da ogni Stato a suo modo, mentre la nuova disciplina è inserita in un regolamento, con regole identiche per tutti, immediatamente applicabili. Si punta a rafforzare la cooperazione fra gli Stati, ad ampliare i casi di rimpatrio forzato e di trattenimento, a inasprire le sanzioni per la mancata collaborazione dello straniero”.
Sono previsti anche i return hubs?
“In alcuni casi si apre alla possibilità di rimpatriare il migrante verso un Paese terzo con cui gli Stati hanno appositi accordi, anche se con esso lo straniero non ha alcun legame personale, giuridico o linguistico-culturale. È la tacita recezione di una prassi di ‘esternalizzazione’ delle procedure che ha i suoi modelli nel criticato accordo del governo britannico con il Ruanda e nella discussa operazione Albania del governo italiano. Il rischio di violare diritti fondamentali è molto alto e devono essere adottati accorgimenti giuridici per evitarlo. Non stupisce che più di 200 Ong abbiano firmato un appello contro la proposta”.


