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Qatar 2022, i Mondiali senza diritti umani

di Valerio Albertini31 Gennaio 2022
31 Gennaio 2022

2 dicembre 2010. Sede della Fifa, Zurigo. L’edizione del 2022 della Coppa del Mondo di calcio è stata appena assegnata al Qatar. L’operazione di Doha per farsi conoscere dal mondo ha raggiunto il suo apice. La notizia mette subito sotto i riflettori un Paese sconosciuto ai più, sul quale si scoprono due dati non proprio trascurabili: il Qatar non brilla per il rispetto dei diritti umani e dispone di un solo stadio già pronto per ospitare le partite. Come possono essere collegate le due cose? Nei dieci anni seguenti, per costruire infrastrutture in vista dei Mondiali, arriva in Qatar una massa di lavoratori migranti sostanzialmente senza diritti. Tra questi, troppo spesso, a mancare è il più importante: il diritto alla vita.

Secondo un’inchiesta del Guardian dello scorso febbraio, infatti, tra il 2010 e il 2020 sono morti più di 6.500 operai impegnati nella costruzione degli altri sette stadi e delle infrastrutture che ospiteranno i tifosi di tutto il mondo.

Coloro che hanno realizzato gli impianti non sono cittadini qatarini, ma persone arrivate appositamente in prevalenza dai Paesi del sud est asiatico e dai vicini Stati arabi. La popolazione del Qatar, passata da poco più di un milione a circa tre milioni di abitanti nell’ultimo decennio, è infatti composta per l’85% da persone straniere. Come spiega a Lumsanews Giuseppe Dentice, responsabile del desk Medio Oriente e Nord Africa del Ce.SI – Centro Studi Internazionali, “il fenomeno migratorio ha avuto un forte impulso dopo l’assegnazione dei Mondiali”.

I 6.751 lavoratori stranieri morti, infatti, sono originari di India, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka e Pakistan. Il bilancio delle vittime è sicuramente più alto, poiché questa cifra non considera né quelle dei lavoratori arrivati da altri Paesi, né i decessi avvenuti tra gli ultimi mesi del 2020 e oggi. Inoltre, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) pubblicato lo scorso novembre, 50 lavoratori hanno perso la vita nel 2020, mentre poco più di 500 sono rimasti gravemente feriti e 37.600 hanno riportato da lievi a moderate lesioni.

L’ILO, però, ha anche spiegato come non sia ancora possibile avere un numero certo delle morti sul lavoro nel Qatar, a causa delle lacune nella raccolta dei dati e delle differenze nei modi in cui i ministeri e le istituzioni qatarine classificano i decessi legati al lavoro. Il Guardian aveva già fatto notare come il Paese catalogasse come “morti naturali” il 69% dei decessi tra lavoratori indiani, nepalesi e bengalesi, attribuendoli a “insufficienza cardiaca acuta o respiratoria”.

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, aggiunge che “le autorità del Qatar non chiariscono le circostanze dei decessi, non vengono fatte autopsie e non si danno risarcimenti ai familiari delle vittime”. Le cause, dunque, vanno ricercate nelle condizioni di sicurezza dei lavoratori che, spiega Riccardo Cucchi, giornalista e presidente della giuria del premio “Sport e diritti umani”, “hanno lavorato a temperature impossibili da sostenere”. Dopo le pressioni di numerose organizzazioni umanitarie, le autorità qatarine si sono limitate a riportare il numero di vittime straniere tra il 2010 e il 2019, ovvero 15.021, senza distinguere per età, professione o causa del decesso.

Dietro il tema specifico delle morti, si staglia quello più generico delle condizioni in cui i lavoratori migranti sono costretti a vivere in Qatar. A partire dal 2017, il Paese ha cominciato un percorso di riforme per prevenire il lavoro forzato e migliorare le condizioni dei lavoratori eliminando il sistema della kafala. Lo Stato concede a privati ​​o aziende locali permessi di sponsorizzazione per assumere lavoratori stranieri che, però, non hanno alcuna protezione in termini di diritto del lavoro del paese ospitante e, nella maggior parte dei casi, hanno bisogno del permesso del loro sponsor per terminare il rapporto di lavoro ed entrare o uscire dal paese ospitante.

Una ricerca di Human Rights Watch ha dimostrato che gli elementi chiave del sistema della kafala restano tutti ancora oggi. “Sono stati istituiti degli organismi per risolvere le controversie sul lavoro”, afferma Noury “ma procedono molto a rilento”. Secondo Dentice, per far sì che le condizioni dei lavoratori migranti in Qatar possano migliorare davvero, “sarebbe necessario che anche i loro Paesi di origine rivedessero il concetto di contratto sociale che è stato finora vigente in Medio Oriente”.

Quelli riguardanti il lavoro non sono gli unici diritti umani che il Qatar fatica a rispettare. Nel 2015, infatti, alcuni giornalisti tedeschi erano stati arrestati mentre stavano filmando degli operai edili impiegati nella costruzione degli stadi, per poi venire rilasciati soltanto 14 ore più tardi e tornare in Germania senza il materiale registrato, confiscato e distrutto.

Il Comitato Supremo qatarino per i Mondiali ha smentito l’accusa, ma un episodio simile si è verificato lo scorso novembre, quando due giornalisti norvegesi sono stati arrestati mentre stavano lasciando il Paese. I due, che stavano preparando dei servizi sulle condizioni dei lavoratori, sono stati interrogati per molte ore e rilasciati soltanto due giorni dopo. In questo caso, il Qatar ha scelto di non commentare la notizia.

Negli anni, è stato più volte richiesto un intervento diretto da parte della Fifa che, come spiega Noury, “con Gianni Infantino ha dato l’idea di occuparsi di più di questi temi, ma pone un’eccessiva fiducia nel comitato organizzatore dei Mondiali” ricordando come quello tra la massima istituzione calcistica internazionale e le autorità qatarine sia “un meccanismo di comunicazioni che non funziona o non si vuole far funzionare”.

Il tentativo di passare a un’azione concreta è arrivato, invece, da alcune federazioni e dalle proprie nazionali. Norvegia, Danimarca, Germania, Olanda e Svezia hanno preso posizione nei confronti del Qatar, chiedendo il rispetto dei diritti umani e, nel caso dei norvegesi, minacciando un boicottaggio dei Mondiali. Ciò non si verificherà perché, spiega Cucchi, “una decisione del genere non sarebbe compresa nemmeno dagli appassionati di calcio”.

La certezza è che il Qatar abbia voluto i Mondiali per dare credibilità alla sua esistenza di Stato moderno, mentre l’augurio di Cucchi è che questi siano “l’occasione per squarciare il velo che nasconde la verità” su come i diritti umani sono calpestati nel Paese.

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