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HomeSpettacoli “Tutta campagna, con le pecore al pascolo”. Silvio Parrello racconta la Roma di Pasolini

“Pasolini ci osservava
da lontano fino a diventare
uno di noi: ragazzi di vita”

Il racconto di Silvio Parrello, Pecetto

“La sua memoria è destinata a crescere”

di Irene Di Castelnuovo16 Ottobre 2025
16 Ottobre 2025
pasolini

Silvio Parrello, "er Pecetto" | Foto di Irene Di Castelnuovo

Nel suo studiolo in via Federico Ozanam, a Monteverde, Silvio Parrello trascorre il tempo a dipingere. A Lumsanews racconta: “Sono un pittore e poeta amico di Pier Paolo Pasolini, come del resto tutti nel quartiere. Sono citato nel romanzo Ragazzi di vita come col soprannome di Pecetto”.

Ricorda la prima volta che ha visto Pasolini? 

“Agli inizi era strano: aveva una voce delicata e parlava con l’accento friulano. Io e gli altri ragazzi stavamo un po’ sul chi va là. Poi, piano piano, Pier Paolo è diventato uno di noi. La prima volta che lo vidi stavo al campetto da calcio. Arrivò con la macchina, scese, posò su una panchina la sua giacca e dei libri e cominciò a calciare il pallone. Faceva tutto quello che facevamo noi, anche perché ci studiava, stava scrivendo Ragazzi di vita”. 

Come percepivate il centro di Roma rispetto alla vostra vita di periferia? 

“Quando andavamo in centro, ci muovevamo sempre in gruppetti. Dicevamo: ‘Andiamo a Roma’, perché noi stavamo fuori dalle mura. All’epoca nel quartiere non c’erano mezzi pubblici”.

Ci sono luoghi che oggi non esistono più che per voi avevano un grande significato?

“Dove c’era il campetto di pallone, ora c’è la scuola De André. Lì sopra c’era il Monte degli splendori che ora non c’è più, è tutto fabbricato. Solo chi l’ha visto può ricordarsi com’era”.

Ha mai avuto l’impressione che Pasolini vi stesse osservando da lontano?

“Sì, ci studiava. Aveva bisogno di frequentarci per capire e per imparare il dialetto romano. Però non rimaneva con noi solo per osservarci, diventava uno di noi. Quando giocava a pallone si trasformava, era un’altra persona, lasciava tutti i suoi pensieri alle spalle. Poi, quando finiva la partita, ritornava nella sua malinconia”.

Come reagirebbe oggi, se incontrasse nuovamente Pasolini?

“La prima cosa che gli direi è: ‘Hai indovinato tutto del futuro’. Pier Paolo in Alì dagli occhi azzurri parla degli sbarchi di immigrati anticipando ciò che accadrà sessant’anni dopo”.

Nelle zone di Ragazzi di vita, riconosce ancora qualcosa di quei tempi? 

“Le borgate si sono trasformate dopo le Olimpiadi di Roma del 1960 e grazie al boom economico. Adesso è tutto unificato. Qui era tutto agro romano, pascolavano le pecore, passava una macchina al mese”.

Qual è l’insegnamento più importante che ha tratto dall’esperienza raccontata da Pasolini?

“Io sono nato poeta, poi sono diventato pittore. La presenza e il contatto con Pasolini mi ha aiutato molto a scrivere e a dipingere. Per questo tengo viva la memoria di Pier Paolo in questo locale. La gente viene a vederlo da tutto il mondo. Ho scritto oltre duecento poesie dedicate a lui: per me era come un fratello. Se non fosse stato ucciso, avrebbe scritto ancora film, libri, poesie. Era un vulcano, una scavatrice, non aveva paura di niente”. 

Cosa rimane di Pasolini in questo quartiere?

“Resta il ricordo. Se ne parla continuamente, sembra che lui sia ancora in vita. E se ne parlerà sempre di più perché di intellettuali come Pasolini non ne esistono più”.

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