Zohran Mamdani non è solo il nuovo sindaco eletto di New York. È una figura nuova, un outsider tutto americano dalle radici globali. Ne ha parlato a Lumsanews Mattia Diletti, professore di Sociologia dei fenomeni politici all’università “La Sapienza” di Roma.
Professor Diletti, chi è Zohran Mamdani?
“Mamdani è un prodotto di eccezionale qualità dell’establishment intellettuale globale. La sua storia personale è interessante. È figlio di due persone che sono arrivate negli Stati Uniti quando l’America, al contrario di oggi, era aperta al mondo. Suo padre e sua madre fanno parte della borghesia intellettuale dei loro Paesi. Mamdani padre è figlio della diaspora indiana, mentre la madre Mira Nair è una regista della media borghesia indiana. Sono arrivati in America con delle borse di studio del governo americano. Zohran viene da altri pezzi di mondo, ma è figlio di una storia americana. È uno che ha frequentato buone scuole e che ha vissuto dentro questo ricco ambiente intellettuale. La cosa che secondo me va sottolineata è che i figli di questo establishment culturale, oggi, tendono a radicalizzarsi. Fosse nato 20 anni prima sarebbe stato un po’ più moderato”.
Quale elemento caratterizza il nuovo sindaco di New York?
“Il fatto di essersi inserito in un momento di radicalizzazione delle classi medie e medio-alte. Il mondo intorno a Mamdani è fatto di persone che percepiscono la rottura “dell’ascensore sociale”. Lui la credibilità se l’è conquistata sul terreno grazie a due battaglie: quella contro gli sfratti e quella con i tassisti, vittoriosa”.
Quanto è stata importante la comunicazione per la vittoria?
“In parte si è agganciato allo stesso trend usato da altri, come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. C’è un’identità grafica che rappresenta l’ala radicale del Partito Democratico. Certo, ci vuole anche talento naturale, fondamentale per questi outsider. È indispensabile che loro, oltre a questo, sappiano gestire il mondo della comunicazione. Lo abbiamo visto nel 2008 con la campagna di Obama: era quella dei social, utilizzati soprattutto come strumento organizzativo. Poi abbiamo avuto la campagna del 2016, che fu quella della dimensione scientifica dell’uso dei dati: i Big Data”.
Come sono nati slogan e programma di Mamdani?
“È stato indovinato un messaggio che rispondeva a esigenze individuali e collettive e Mamdani non si è mai allontanato dal suo messaggio. Poi, è sempre riuscito a liberarsi da tutti i tentativi di accerchiamento. Non è la prima volta che un candidato mostra questa capacità. Nel 1992 ci fu la grande campagna di Clinton, basata sullo slogan “It’s the economy, stupid”. Dall’altra parte ci fu George Bush Sr, il presidente che vinse la Guerra Fredda e la guerra in Iraq. Fu un momento di difficoltà economica e Clinton fece una campagna tutta basata sulla questione del benessere degli americani, senza quasi mai allontanarsi da questo messaggio. Un tratto in comune con la campagna di Mamdani. In questo caso non è “It’s the economy, stupid”, ma è “It’s affordability, stupid”, cioè ‘ti conviene’. Il candidato, vivendo in una città come New York, sa che tipo di difficoltà attraversa il cittadino. E questa è stata una chiave decisiva. In merito alla fattibilità, va detto che le proposte di Mamdani sono dentro la tradizione politica americana. Non parliamo di cose fuori dall’orizzonte culturale degli Stati Uniti. Il punto, secondo me, è che non riuscirà a realizzarlo per intero. Ed è vitale che riesca a realizzarlo, quantomeno in parte e in fretta, perché altrimenti perde consenso e credibilità”.
Con quali comunità troverà maggior difficoltà a New York?
“La comunità ebraica newyorkese è estremamente plurale. Ha votato quasi alla pari tra Cuomo e Mamdani. Ma nessuna comunità verrà danneggiata dalla presenza di un sindaco musulmano. Se le cose andranno bene o male, varrà per tutti. Eppure, l’effetto più pericoloso per il consenso è la mancanza di risultati per le comunità che lo hanno votato”.
Tornando a Obama, quanto c’è in Mamdani dell’ex presidente e del suo “Yes we can”?
“Mamdani è un Obama radicale. C’è un racconto di unità e speranza, ma rivendica anche cose divisive. Ha subito rivendicato di essere un socialista, per esempio. Tutti e due vengono da una crisi dell’establishment democratico. In tutti e due i casi c’è una voglia di vedere facce nuove. Mamdani è più radicale perché i tempi si sono radicalizzati e perché stanno venendo al pettine questioni che democratici, anche come Obama, non hanno saputo né risolvere né affrontare”.
Come è stata recepita questa vittoria, questo personaggio qui in Italia?
“La cosa più veloce è cercare di intestarsi una cosa che funziona in America perché luccica. C’è bisogno di lavoro sui contenuti, sul messaggio e c’è bisogno di studiare e conoscere la propria società. Mamdani e il suo team sanno che cosa è diventata New York e io questa attenzione nel capire la società non la vedo nella politica italiana. La vedo forse un po’ nel centrodestra, che sa bene quali sono i suoi ancoraggi di riferimento. Il tema è capire quali sono i messaggi che risuonano nel pubblico, nell’elettorato, e le cose che le persone vorrebbero vedere realizzate”.
Abbiamo parlato dei genitori, qual è il ruolo della moglie in tutto questo percorso?
“Ricordiamoci che l’America ha una lunga tradizione. Anche alla Casa Bianca, non viene eletto solo il presidente, ma l’intera famiglia. C’è sempre una first lady e secondo me è estremamente interessante perché rompe tanti stereotipi. È estremamente moderna e ha 28 anni. Vedremo cosa accadrà”.


