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Auto elettrica, se a rischiare è l’occupazione

di Gabriele Crispo09 Dicembre 2021
09 Dicembre 2021

Il mercato dell’automotive è in crisi profonda e la situazione rischia di peggiorare. Nei prossimi 14 anni la transizione ecologica, unita a inflazione e carenza di risorse, potrebbe creare nuovi tavoli di crisi aziendale e licenziamenti. Il report mensile del Centro Studi Promotor riporta che le immatricolazioni a novembre 2021 sono calate del 25% rispetto all’anno precedente e del 31% sullo stesso periodo del 2019. Una contrazione che si unisce a quelle dei mesi precedenti. Dopo un’iniziale ripresa nei primi mesi dell’anno, infatti, la domanda di autoveicoli è tornata su livelli di forte criticità. Cresce solo la quota vendite di auto elettriche e ibride, che sul totale ha però ancora un impatto marginale. La flessione riflette gli impegni internazionali di Glasgow 26 e del pacchetto climatico della Ue, Fit for 55, secondo cui i produttori di auto in Europa diranno addio al motore endotermico (benzina o diesel) entro il 2035.

VARIAZIONI TENDENZIALI IMMATRICOLAZIONI AUTO NUOVE

Dati di Centro Studi Promotor

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Tuttavia, come sottolinea a Lumsanews Gianluca Ficco, dirigente nazionale della Uilm, “l’auto elettrica ha meno componenti”. Per produrre un veicolo simile serve circa il 30% di lavoro in meno e quindi quello dell’elettrico è un comparto che “richiede meno manodopera”. Ferdinando Uliano, Segretario Nazionale della Fim Cisl, spiega che la perdita di posti di lavoro nell’automotive “è stimata intorno alle 60mila unità entro il 2035”.

 Il mercato automobilistico italiano oggi

Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico (Mise), l’industria automobilistica nel suo complesso fattura 350 miliardi di euro, il 20% del Pil nazionale, e conta 1.25 milioni di lavoratori, con una spesa di circa 9 miliardi di euro in stipendi.

Attualmente però è in atto una tempesta perfetta: riduzione dell’offerta nel mercato della componentistica, carenza di microcircuiti, aumento dell’inflazione e quindi dei prezzi delle materie prime. A ciò si aggiunge la graduale diminuzione delle immatricolazioni di veicoli in Europa, dove le imprese italiane esportano il 67% della produzione.

Per Uliano pesa anche la mancanza di semiconduttori, “che condiziona acquisti, tempi di consegna e persino gli ordinativi e si riflette sulla componentistica”. Rischiano così la crisi “anche aziende non coinvolte nel cambio di produzione”. Per Ficco, invece, “il vero problema, che può diventare un detonatore, è la mancanza di microchip”. Il dirigente della Uilm è convinto che la transizione green, nei prossimi anni, porterà a un incremento di importazioni: “L’elettrico ci rende ancora più dipendenti dall’estero e dall’Asia, in quanto non abbiamo risorse perché in Italia la filiera è tradizionalmente meccanica”.

Il governo italiano prende tempo sull’elettrico

Luca Refrigeri, analista della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, spiega a Lumsanews che “gli obiettivi contenuti nel pacchetto climatico Ue sono molto ambiziosi, considerati gli attuali tassi di penetrazione dell’elettrico nel mercato”. Il piano europeo punta infatti all’abbattimento del 55% di emissioni per il 2030 e del 100% entro il 2035, ma il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, continua ad avere dubbi sui tempi di attuazione. Andrea Poggio, Segretario Nazionale di Legambiente, critica la posizione del ministro, specificando che “non ha senso ritardare i tempi in Italia, mentre altrove questi tempi accelerano”. Per Uliano e Ficco, inoltre, i tavoli sull’automotive tra parti sociali, associazioni, imprese e Mise fino ad oggi “hanno prodotto poco”.

Le crisi aziendali aperte

Accanto ai tavoli istituzionali, come ricorda Ficco, ci sono poi quelli “delle singole crisi aziendali”, principalmente nel comparto del diesel. Alla tedesca Vitesco di Pisa 750 addetti rischiano il posto, la Bosh di Bari potrebbe mandare a casa entro i prossimi due anni 1.400 dipendenti, senza contare il caso Stellantis (ex Fiat). Ci sono infatti le crisi aziendali di Cento, in provincia di Ferrara e di Pratola Serra, in provincia di Avellino, che producono motori diesel. Intanto, dopo il blocco dei licenziamenti da parte del Tribunale e l’incontro avvenuto al Mise, lo stabilimento Gkn di Campi Bisenzio ha riaperto la procedura di licenziamento per i suoi dipendenti.

L’industria automotive guarda al futuro

In attesa di politiche sul comparto, le imprese iniziano a guardare avanti da sole. Nel modenese un gruppo di investitori di Reggio Emilia ha fondato nel 2021 Reinova, un’azienda che collauda e omologa batterie. Stellantis, invece, ha annunciato che intende costruire una gigafactory a Termoli per produrre batterie di veicoli elettrificati. Un primo sito a cui dovranno seguirne altri. Tuttavia Uliano e Ficco sottolineano che ad oggi “manca un accordo tra governo e Stellantis” e “bisogna vedere quanta occupazione svilupperà”.

L’Italia, però, potrà salvare il settore solo se saprà attirare investimenti stranieri. Servirà pensare a poli industriali in grado di produrre, rigenerare, riparare e riciclare batterie, senza dipendere totalmente dalle importazioni. Merita poi attenzione il tema dell’approvvigionamento elettrico e dell’adeguamento delle infrastrutture al carico richiesto dalla maggiore domanda, già centrale nel Piano nazionale ripresa resilienza. Oltre che investimenti per sviluppare metodi e tempi di ricarica più efficienti. Ficco chiede di salvaguardare le eccellenze del Paese, ma come sottolineato anche da Uliano “è fondamentale destinare risorse al settore, altrimenti il saldo occupazionale sarà negativo”.  Le multinazionali, infatti, “stanno decidendo dove posizionare la componentistica dell’elettrico” e c’è il rischio che i produttori decidano di spostare la produzione. Bisogna formare i dipendenti per portare in Italia le produzioni che non ci sono: batterie, conduttori e componentistica in generale. “Se riusciremo a farlo la gestione della transizione sarà più sostenibile dal punto di vista sociale”.

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