VENEZIA – Un gruppo di attivisti ProPal gli ha strappato il microfono di mano e gli ha impedito di proseguire il suo intervento durante un dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente all’Università Ca’ Foscari di Venezia. L’ex parlamentare Pd Emanuele Fiano, bersaglio della contestazione del 27 ottobre scorso, è figlio di Nedo, sopravvissuto ad Auschwitz. Ecco il suo racconto a Lumsanews.
Onorevole, partiamo da quanto è accaduto a Venezia. C’era già il sospetto che sarebbe successo qualcosa?
“Sì. Il giorno prima gli attivisti del Fronte della Gioventù Comunista avevano pubblicato un post convocando una manifestazione davanti a Ca’ Foscari per impedire il mio ingresso. Per questo, d’accordo con rettrice e autorità di pubblica sicurezza, gli organizzatori – l’associazione studentesca Futura – hanno dovuto cambiare sede. Già questo è il risultato di una prevaricazione annunciata”.
Quando è iniziata la contestazione?
“Dopo circa mezz’ora. Sono entrati una trentina di ragazzi con striscioni, megafoni e fischietti. Uno di loro mi ha strappato il microfono e ha iniziato a leggere un proclama dal cellulare, attribuendomi opinioni che non ho mai sostenuto”.
Quanto ha parlato?
“Un quarto d’ora, forse venti minuti. Gli è stato chiesto di finire e che poi io potessi replicare. Ma non hanno voluto: hanno continuato a fare rumore per coprire qualsiasi parola”.
Avete provato a proseguire?
“Sì, io e la moderatrice abbiamo preso il microfono più volte, ma la nostra voce era sovrastata. Intonavano slogan come ‘Palestina libera, dal fiume fino al mare’. Poi l’università doveva chiudere e i commessi ci hanno chiesto di andare via. Io ho detto: ‘Non me ne vado prima di loro, non mi faccio mandare via da nessuno’”.
La rettrice ha espresso solidarietà?
“Mi ha chiamato, sì, ma non è venuta sul posto”.
Lei ha cercato un dialogo?
“Alla fine ho parlato con il portavoce per qualche minuto, smontando alcune sue tesi, ma altri ragazzi mi hanno detto: ‘A noi non interessa quello che dici. Tu qui non hai diritto di parlare’. Questo è fascismo. Sullo sfondo c’era persino chi faceva il gesto della P38 – quello adottato negli anni di piombo come simbolo della lotta armata e del conflitto con lo Stato, ndr“.
A Repubblica ha detto di aver pensato subito a suo padre e alle leggi razziali del 1938. Ha provato a ricordarlo ai contestatori?
“No, era impossibile parlare. Non erano interessati a sentire nulla: né della storia d’Italia, né di mio padre, né dell’Olocausto. L’unico obiettivo era impedirmi di esprimermi”.
Questi episodi sono isolati o indicano una deriva nel mondo studentesco?
“Il problema non è solo dove accadono, ma cosa sta accadendo. È giusto sostenere i diritti del popolo palestinese e il suo diritto ad avere uno Stato. Ma una parte del movimento ha dato spazio – troppo spazio – a posizioni estremiste, che trasformano la solidarietà in odio. C’è chi si disinteressa dei fatti, semplifica la realtà e arriva a giustificare violenza e censura. Impedire a qualcuno di parlare è un atto tipico dei sistemi totalitari: lo abbiamo visto nel fascismo del Novecento, nel comunismo sovietico, oggi in Russia, in Iran, in Cina. Luoghi dove esprimere la propria opinione non è consentito. Io ho visto quegli atteggiamenti rivolti a me ieri in un’aula universitaria italiana”.
Ma l’università non dovrebbe essere un luogo di confronto?
“Certo. È un luogo di incontro, scambio, apprendimento. Se qui si arriva a impedire a qualcuno di parlare, siamo fuori dalla democrazia. Non si può chiedere libertà per sé stessi e negarla agli altri”.
Ha paura che possa accadere ancora?
“Guardi, sono 15 anni che sono costretto a vivere sotto scorta per le minacce legate al mio essere ebreo e per la mia attività in qualità di presidente di ‘Sinistra per Israele’. Non ho mai avuto paura. Continuerò comunque a partecipare agli incontri: il 4 novembre a Milano per i trent’anni dall’omicidio di Rabin, poi altre iniziative. Non mi faccio intimidire”.


