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Se l’amministrazione di sostegno diventa abuso

di Maddalena Lai10 Gennaio 2024
10 Gennaio 2024

Quattrocentosettantaquattromila euro. È la somma  che secondo la magistratura è stata sottratta all’attore Paolo Calissano – morto nel 2021 a causa di un mix di farmaci antidepressivi – dal suo amministratore di sostegno (Ads) Matteo Minna, finito agli arresti domiciliari con l’accusa di peculato, falso ideologico e falsa perizia.  Minna è accusato di aver raggirato altre tre persone che seguiva, appropriandosi in tutto di circa  800.000 euro. Della storia di Carlo Giraldi, del ricovero contro la sua volontà in una Rsa, si era occupata invece la Corte europea per i diritti dell’uomo, prima che lui, un docente stimato che aveva ereditato una grossa somma e che era finito in una residenza per anziani su richiesta dell’Ads, morisse a 92 anni in un hospice. Sono solo due dei casi più eclatanti di persone seguite da un amministratore di sostegno di cui la cronaca si è occupata negli ultimi anni. Due dei molti casi che pongono interrogativi sulla legge numero 6 nata nel 2004 secondo le migliori intenzioni – tutelare un soggetto debole – che ha poi rivelato falle e possibili occasioni di abusi.

Che cos’è l’amministrazione di sostegno

L’amministratore di sostegno è da quasi vent’anni una figura prevista dagli articoli 404 e seguenti del codice civile che – come  afferma il suo padre ideologico, il giurista Paolo Cendon a Lumsanews – “nasce con l’intento di dare una tutela giuridica più umana alle persone fragili”. 

L’articolo 404 prevede infatti che le persone  non  più in grado di provvedere ai propri interessi  a causa di un’infermità o  di una menomazione fisica o psichica, vengano assistite da un amministratore di sostegno. Ovvero da un soggetto, spesso un avvocato ma anche un genitore o un parente, che  aiuti la persona in difficoltà a gestire correttamente  il proprio patrimonio o che prenda in sua vece decisioni necessarie per la tutela della  salute in caso di totale o parziale non autosufficienza.

La scelta dell’amministratore di sostegno, secondo l’articolo 408 del codice civile, dovrebbe avvenire con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi del beneficiario, che può fornire indicazioni in merito a chi intende nominare per questo ruolo.

Secondo i pochi dati forniti dal ministero della Giustizia, tra il 2020 e il 2021 sono state 48.693 le procedure depositate presso i tribunali per l’attivazione dell’istituto. Alla fine dello scorso anno le persone che ne beneficiavano erano, secondo le stime, circa 350 mila. 

Il rovescio della medaglia

Un istituto dall’intento di per sé nobile. Ma la cronaca spesso restituisce storie di abuso e vessazione. Come appunto nel caso Calissano.

Comportamenti impropri dell’amministratore di sostegno possono ledere non solo la sfera economica del beneficiario  ma anche alcuni diritti fondamentali della persona.  Come accusa Cristina Paderi dell’Associazione “Diritti alla Follia” – che da anni si batte per una riforma dell’istituto – l’amministrazione di sostegno colpisce spesso “il diritto all’autodeterminazione dell’individuo”, cioè la libertà di una persona di scegliere dove vivere, chi frequentare e a quali trattamenti sanitari sottoporsi.

Agli amministratori di sostegno, infatti, spetta la facoltà di decidere – qualora il tribunale lo abbia ricompreso nelle sue facoltà o lo abbia autorizzato con un provvedimento specifico – se il beneficiario deve o meno essere ricoverato in una casa di riposo o in un istituto per non autosufficienti. Talvolta accade, come nel caso Gilardi, che questo avvenga in totale contrasto con la volontà del beneficiario. 

Nelle Rsa queste persone, spesso, non solo subiscono la rottura dei legami affettivi ma anche trattamenti degradanti. Come denunciato dal documentario “La prigionia dei vecchi e degli inutili”, realizzato dalla giornalista Barbara Pavarotti, sarebbero circa 100mila le persone che sono sottoposte a contenzione. 

La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo proprio in merito al caso del professor Carlo Gilardi ha riconosciuto che le misure adottate fossero lesive dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che garantisce  il diritto alla vita privata e affettiva. Nel 2016 anche il comitato Onu per i diritti delle persone con disabilità ha invitato lo Stato italiano ad abrogare “tutte le leggi che permettono la sostituzione nella presa di decisioni da parte di tutori legali”. La convenzione, infatti,  come spiega l’avvocato Valentina Cafaro, “sancisce a tutela delle persone disabili il diritto all’autodeterminazione, anche nel momento in cui si adottano meccanismi utili alla loro tutela”. 

Sapere quante persone sottoposte ad amministrazione di sostegno subiscano abusi è molto difficile. “Il ministero della Giustizia non fornisce dati in merito” nonostante le numerose richieste delle associazioni, afferma la responsabile di “Diritti alla Follia”.

Un istituto da riformare o da abolire?

I sostenitori dell’istituto concordano sul fatto che i tribunali facciano fatica a gestire la mole delle pratiche legate all’amministrazione di sostegno. Il che inficia notevolmente la loro funzione di controllo e supervisione. A parere del professor Cendon “la maggior parte dei giudici tutelari svolge correttamente il proprio lavoro”, ma la macchina della giustizia necessita di maggior supporto. Il padre ideologico dell’amministrazione di sostegno, a vent’anni dalla sua introduzione, ne difende la validità evidenziando che sia necessario “un sottobosco di figure professionali” che affianchi e renda più efficace l’autorità del giudice tutelare. 

Al contrario, chi contesta la legge ritiene  che la figura dell’Ads andrebbe abolita, riprogettando  le forme di sostegno alla persona nel rispetto delle  convenzioni internazionali. Convenzioni che, al centro, stabiliscono  il diritto all’autodeterminazione delle persone fragili, da sostenere  attraverso un’adeguata rete sociale in grado di impedire  che qualcuno prenda decisioni contrarie alla propria  volontà o lesive della  dignità di esseri umani. 

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