Simone e la SMA, un traguardo a ogni passo

Simone ha due anni. Come i bambini della sua età ama giocare, ridere e stare con il  fratellino. È curioso, parla tanto e ogni giorno impara qualcosa di nuovo. Ora ad esempio sa riconoscere gli animali. Pian piano sta cominciando a camminare, reggendosi alle pareti o aggrappandosi alle mani di papà Vito e mamma Manuela, che lo guardano crescere e gioiscono per  ogni suo piccolo grande traguardo. E ogni  passo lo è. Perché Simone ha la SMA, l’atrofia muscolare spinale, una malattia genetica rara che colpisce il secondo motoneurone, impedendo l’impulso del movimento ai muscoli. Per Manuela il  figlio è paradossalmente fortunato, perché se oggi può fare questi progressi  è solo grazie allo screening neonatale, un test genetico effettuato casualmente  pochi giorni dopo la  nascita, che ha permesso di diagnosticare subito la malattia e di cominciare la terapia. 

La vita che cambia

Simone al mattino apre i suoi grandi occhi castani e aspetta che mamma Manuela lo prenda in braccio per la prima coccola della giornata. Anche se ha solo due anni, i suoi orari sono già ben scanditi. Alle 8 giù dal letto, bisogna fare colazione presto per avere il tempo di digerire prima della terapia giornaliera. 

Da quando ha sei mesi, infatti, ogni mattina Manuela  lo porta nella sede romana del centro Uildm (l’associazione nazionale di riferimento per le persone con distrofie e altre malattie neuromuscolari) per fare  psicomotricità, logopedia e ginnastica respiratoria. “Simone – scherza Manuela – non ha una vita rilassante” perché alla Uildm deve andarci sempre, anche col freddo e con la pioggia. Allo stesso tempo, però, bisogna stare attenti perché a causa della malattia la salute di Simone è più cagionevole e anche un minimo raffreddore può farlo star male”. 

Dopo essere stato al centro,  Simone va dalla nonna, dove  può giocare, camminare con il  deambulatore o saltare in sella alla sua piccola moto elettrica. Nel pomeriggio il riposino è d’obbligo. Nel frattempo Manuela esce per andare a prendere a scuola Matteo, il primogenito di quattro anni e mezzo. In famiglia non ci sono solo le esigenze del più piccolo  e Manuela cerca di fare il possibile per non far mancare nulla a nessuno. La priorità, dice, è “preservare Simone, ma anche far divertire Matteo”. 

La sera, poi, tornano a casa, dove ad attenderli c’è papà Vito, che si divide tra i turni della sala bingo dove lavora e la  famiglia. Ogni quattro mesi, però, alla routine quotidiana si aggiunge la terapia ospedaliera. “Il giorno prestabilito porto Simone al centro pediatrico del policlinico Gemelli – racconta Manuela -. Ad accoglierci c’è sempre la stessa infermiera. Insieme andiamo  in terapia intensiva pediatrica, dove lo addormentano e gli iniettano un farmaco attraverso una puntura sulla colonna. Io non posso entrare,  aspetto tutto il tempo fuori dalla sala. Il tutto dura cinque minuti. Alla fine l’infermiera mi scrive un messaggio per dirmi che è andato tutto bene. Poi quando Simone si risveglia gli danno un  regalino e lo riportano da me. Rimane un po’ sotto osservazione e dopo circa due ore può già mangiare e bere. Da quel momento acquisisce più forza ed energia e torniamo a casa con un traguardo in più”. 

Per la SMA oggi non esiste una cura, ma tre tipi di trattamenti. I medici delineano  i possibili percorsi da intraprendere, ma poi scelgono i genitori. Manuela e Vito, quando scoprono la malattia, decidono di optare per la strada che reputano “meno traumatica” cioè quella della terapia con SpinRaza, che viene effettuata per la prima volta quando Simone ha soltanto dieci giorni di vita. Il trattamento prevede l’iniezione di un vettore virale a livello intratecale con una rachicentesi, cioè tramite una puntura lombare. “Con l’ultimo trattamento ha acquisito forza sul tronco, sulla colonna e sulle gambe” dice Manuela, che aggiunge: “Con lo step di maggio credo che imparerà a camminare da solo, ne sono convinta”.

La scoperta della malattia

Simone ha cinque giorni di vita quando l’ospedale Fatebenefratelli di Roma, dove viene  alla luce, propone a Manuela di partecipare al progetto pilota di screening per la SMA, coordinato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore. Lei accetta. Non immagina che quel test risulterà positivo, ma allo stesso tempo non sa che grazie alla sua scelta garantirà al suo bambino la possibilità di condurre una vita il più normale possibile. A Simone viene diagnosticata la SMA di tipo 1, la forma più grave, che nei casi peggiori può causare paralisi, complicanze respiratorie e nella deglutizione. Quando si scopre la malattia, racconta Manuela, si viene  catapultati in un limbo di sentimenti contrastanti. Da una parte “è un colpo al cuore, ti casca il mondo addosso”; dall’altra però “ti senti fortunata, perché sai che se la diagnosi fosse arrivata qualche mese dopo sarebbe stato troppo tardi”.

L’accettazione

Per Manuela  accettare la  nuova condizione familiare non è stato semplice. La parte più complicata della malattia di Simone è stata proprio doverla accettare: “All’inizio mi dicevo «non è vero, non è successo a me»”. Solo dopo essere entrata a far parte di “Famiglie SMA”, un’associazione che da più di vent’anni si occupa di sostenere i familiari di persone affette da questa malattia rara, le cose sono cominciate ad andare meglio. “È una rete sociale importante – spiega Manuela – ci aiutiamo facendo  riunioni con gli psicologi ma anche con gli altri familiari per sfogarci e confrontarci”. Oggi si sente  più pacificata. “Certo i momenti di sconforto ci sono, ma Simone non deve vivere le nostre ansie e preoccupazioni perché è il primo che combatte tutti i giorni”, dice. 

L’incertezza del futuro

Tra i mille impegni, le giornate trascorrono veloci e tutto il suo tempo Manuela lo dedica a Simone. Una opportunità, questa, che non tutte le mamme hanno ma che a Manuela costerà forse una rinuncia pesante. Fino a due anni fa infatti  faceva l’infermiera. Aveva un contratto a tempo indeterminato e dapprima, per  l’invalidità del figlio, le sono stati concessi due anni di congedo. Senza questi presupposti per lei sarebbe stato impossibile prendersi cura di Simone, perché “la patologia richiede un impegno continuo”. 

Ad agosto però il suo congedo lavorativo scadrà. Quello che accadrà dopo non lo sa. Forse potrà ottenere un part-time o magari chiedere dei permessi. O forse lei e Vito potrebbero decidere di prendere una baby-sitter, ma c’è il timore che improvvisamente le condizioni di Simone possano peggiorare. Manuela, però, a tutto questo oggi non ci vuole pensare. Sa che ogni singolo progresso di suo figlio, anche il più piccolo, vale tutti gli sforzi. E questo, per ora, basta.