A parlare a Lumsanews degli aspetti psicologici che sottendono la ricerca di luoghi abbandonati è la psicoterapeuta dell’età evolutiva Anna Galante.
Dal punto di vista psicologico, quali sono le ragioni che spingono all’urbex?
“Da un lato l’esplorazione si accompagna a una grande curiosità per luoghi che abbiano come caratteristica l’abbandono, l’assenza di vita. Sono spazi morti, che contrastano con questo desiderio di adrenalina. Dall’altro, mettersi in contatto con luoghi abbandonati significa appropriarsi di qualcosa che è morto riportandolo in vita. Un po’ come la protagonista di Il Giardino Segreto è attirata dal giardino come posto diverso, anche i giovani sono attratti da posti che sono diversi da tutti i luoghi che invece sono soliti vivere, attirati da quello che il tempo negli anni riesce a fare sulla materia”.
Quindi è proprio il fascino dell’abbandono ad attrarre gli urbexer.
“Un luogo abbandonato segue leggi tutte sue. Questi posti danno anche molto spazio all’immaginazione. Mentre quotidianamente ci si trova in posti regolati da leggi, in questi spazi i giovani si sentono liberi di immaginare e dare nuovi significati”.
C’è una connessione tra spazi abbandonati e psiche umana?
“Noi psicologi nello spazio di terapia ci occupiamo di spazi interni un po’ abbandonati. Quando una persona è interessata a una conoscenza più profonda di sé stesso va ad esplorare il luogo abbandonato dell’inconscio. Forse nell’urbex si cerca inconsapevolmente qualcosa di abbandonato e che si vuole scoprire”.
Quali potrebbero essere le ragioni di un incremento del fenomeno dell’urbex dopo il Covid?
“Esplorare il proibito, lo sconosciuto, fa parte da sempre dei giovani: trasgredire le regole, fare i conti con i propri limiti. Il Covid, però, potrebbe aver influito su una connessione tra il chiuso e l’aperto. Forse la ricerca di spazi chiusi sconosciuti potrebbe essere collegata alla pandemia. Ci troviamo di fronte a forme molto diverse e non riconducibili a un fenomeno unico, sul quale però sicuramente il Covid ha avuto un impatto”.
In questa ricerca c’è anche un’esigenza di controllare il tempo.
“Tutti noi, dall’adolescenza in poi, facciamo i conti con un tempo che sfugge, ma ci sono cambiamenti che il tempo impone e che molto spesso arrivano proprio quando non si è pronti. Forse l’idea di stare in un posto abbandonato dove il tempo sembra essersi fermato è un modo di padroneggiarlo”.
Questa ricerca di adrenalina nei luoghi abbandonati potrebbe essere collegata a un sempre maggiore utilizzo di videogiochi?
“Da una parte direi di sì, i videogiochi proiettano la persona in un mondo che sembra reale e forse i luoghi abbandonati danno l’illusione che ci si possa muovere nello spazio proprio come si fa nel videogioco. Di qui l’idea che posti inaccessibili non siano poi così pericolosi”.
In conclusione, non c’è un’unica motivazione che spinge all’urbex.
“Assolutamente. Bisogna considerare la varietà delle motivazioni che spingono una persona a esplorare questi luoghi. Alla base ci sono cause diverse. Non ci sarà mai una stessa precisa motivazione che spinge una persona a fare la stessa cosa. Per ogni situazione vanno indagate le radici profonde, dal Covid, alla fase dell’adolescenza, all’uso di videogiochi. Ma c’è anche una mancanza della funzione genitoriale, che forse non riesce a instaurare bene nelle menti dei ragazzi l’idea del limite, fino a che punto possa essere sfidato. Il limite pone un confronto con la fine della vita, il limite estremo della morte”.