Se il videogioco diventa un lavoro milionario

Che lavoro fai? Gioco ai videogame. No, non è una battuta. È quello che oggi fanno migliaia di persone, in ogni parte del pianeta: guadagnano denaro partecipando a tornei internazionali o condividendo in rete le proprie partite ai videogiochi, magari con dirette live sulle principali piattaforme di streaming on line. Neanche dieci anni fa, se ci avessero detto che si poteva fare soldi comodamente seduti nella propria camera, giocando ai videogame avremmo pensato che ci stessero prendendo in giro. Se poi avessero aggiunto che il denaro guadagnato poteva essere tale da permettere ad un teenager di comprarsi una casa, semplicemente sfruttando la sua bravura nei videogiochi, avremmo pensato di essere su “Scherzi a parte”.

Invece le testimonianze di persone che hanno intrapreso questa carriera e che si sono arricchite col gaming sono tantissime. Ne parliamo con Marco Ragusa, in arte Vengeur, ragazzo palermitano classe ‘99: “Ho cominciato a giocare ai videogame con mio fratello più grande per divertimento. Un po’ come tutti. Adesso, ho 23 anni, sono un professionista e grazie a questo lavoro sto per comprarmi una casa”. Marco è campione del mondo di Quake, un videogioco del genere sparatutto in prima persona, in cui il protagonista deve farsi strada attraverso livelli a labirinto, mentre si combattono mostri.
Quella di Marco non è l’unica storia di questo tipo. Sul web si può leggere anche quella di un Riccardo Romiti, toscano di 19 anni, conosciuto nel mondo dei giochi virtuali con il nickname “Reynor”. Riccardo, all’età di otto anni, ha iniziato a giocare insieme al padre a StarCraft 2, un videogioco strategico. A dodici anni è stato il più giovane di sempre a raggiungere la lega GrandMaster, la più alta possibile. A sedici anni ha esordito come professionista e in tre anni di carriera ha vinto decine di tornei guadagnando oltre 400mila dollari. Non solo. La Red Bull ha messo gli occhi su di lui, facendolo entrare nel suo team di talenti, rendendolo di fatto una star internazionale.

Le storie di questi due ragazzi dimostrano che i videogiochi non sono solo svago e possono diventare una cosa seria, un lavoro. Secondo un’analisi di Nielsen l’impatto economico generato dal settore degli esport in Italia si aggira intorno a 46 milioni di euro. Una cifra che comprende impatto economico diretto e indiretto (rispettivamente 30 milioni e 16 milioni di euro). Un mercato dalle ampie possibilità che ha attirato le attenzioni anche della serie A. Nel 2021 infatti è nata la eSerie A Tim, cioè è il campionato di efootball ufficiale del nostro massimo campionato. Alla competizione partecipano quindici dei venti club della Serie A e si gioca sia su Playstation 4 che Playstation 5. Come spiega Roberto Forzano, che con l’agenzia Pro2Be gestisce la procura di alcuni gamer professionisti che partecipano alla eSerie A Tim, “i giocatori che noi diamo alle squadre sono stipendiati, proprio dalle società e il loro compenso varia a seconda della carriera che hanno alle spalle. Si può partire da uno stipendio di 1200 euro fino ad arrivare a 5 mila”.
Il compenso di un gamer professionista può essere anche molto più alto. Varia in base al titolo sul quale gioca e sul livello di competitività che riesce a raggiungere. Ad esempio “un giocatore ultra professionista di League of Legends con una carriera che inizia a 16 anni e finisce verso i 30 può permettersi di non lavorare più”, spiega Alessandro “Sekuar” Sesani, head coach del team dei Qlash. Ma questi sono esempi particolari, sono i fenomeni del gaming, i Ronaldo, Baggio della situazione. I gamer professionisti che non raggiungono questi livelli riescono ad avere introiti importanti, ma a fine carriera saranno comunque costretti a reinventarsi.
Il mondo degli esport non è fatto solo dai gamer: lo stesso Alessandro Sesani è head coach di una squadra che partecipa ai campionati di League of legends e si serve di un staff che può arrivare fino a 6/7 persone. La sua figura si inserisce poi all’interno di un team strutturato che gestisce gamer professionisti anche in altri titoli.

Ma da dove arrivano tutti questi soldi che girano intorno al mondo degli esport? La molla economica è la visibilità. Il paragone fra questi nuovi strumenti di gioco e intrattenimento con i media tradizionali, come tv, radio e stampa regge ampiamente il confronto. La trasmissione online dei tornei attira un gran numero di spettatori. Tante aziende, sia quelle endemiche che non, hanno visto le potenzialità di questa vetrina e ormai da anni gli investimenti valgono miliardi. Denaro che gonfia sia il valore dei montepremi che delle sponsorizzazioni. Queste sono le due principali fonti di guadagno di un pro player, insieme allo streaming. Un’attività fatta soprattutto su Twitch, la piattaforma di Amazon, nella quale gli utenti possono vedere e commentare in diretta le partite dei loro gamer preferiti. Per farlo è necessario l’abbonamento al canale, che in parte va direttamente al gamer.

A livello mondiale, per Francesco Chiarpenello, Senior Analyst di Cross Border Growth Capital, il “settore degli eSport vale circa un miliardo, ma si inserisce in un ecosistema, quello del mercato dei videogiochi che ne vale circa 175”. Un mondo che coinvolge più di 2,7 miliardi di gamer in tutto il globo. Per quanto riguarda il mercato italiano, secondo i dati dell’Italian Interactive & Digital Entertainment Association (Iidea), il giro d’affari legato ai videogiochi nel 2020 ha registrato un +21,9% rispetto all’anno precedente: che tradotto in euro significa oltre due miliardi.
Le vendite su shop digitali sono legate in prevalenza a console e PC: valgono il 44,8 % (+ 32,7 % rispetto al 2019). Poi seguono le app per dispositivi mobile (39,3 %, con una crescita del 33,5 %). Il settore mobile è quello che sta crescendo di più. Il cellulare infatti è molto più accessibile rispetto alle console o ai PC. Uno smartphone di fascia bassa riesce ad essere sufficientemente performante per giocare alla maggior parte dei videogame. Il fanalino di coda è rappresentato dalle vendite fisiche, pari al 15,9 % del totale, diminuite del 6 % rispetto all’anno precedente. Un trend influenzato anche dalla pandemia, come spiega a Lumsanews Filippo Luna, manager di Games Time: “In effetti tanti clienti si sono abituati al mercato online o digital, abbandonando la copia fisica che sostiene noi venditori diretti”.

Le potenzialità del mercato dei videogiochi hanno ingolosito anche Netflix. L’azienda di Los Gatos ha dapprima lanciato il format degli show interattivi come “Black Mirror:Bandersnatch” e “Headspace: rilassare la mente”. Poi dal 28 settembre per Android e dal 4 novembre per Apple ha lanciato la sezione “Games”. Uno sguardo ai numeri può far capire che impatto sul mercato potrebbe avere la mossa del colosso dello streaming video. Stando a quelli che sono i dati diffusi da vari aggregatori di statistiche, come Statista.com, attualmente Netflix può contare su di una base di ben 221 milioni di sottoscrizioni (ciò significa che 1 persona su 35 del pianeta ha un abbonamento Netflix), contro i circa 23 milioni che invece usano il servizio Xbox Game Pass, quello concettualmente più vicino al progetto di Netflix. Un bacino di utenza nove volte superiore a quello di Xbox. Netflix, proponendosi con un servizio senza alcun sovrapprezzo, sta cercando di offrire la sua inedita componente ludica a quel pubblico potenzialmente a digiuno di gaming e che, non solo non è nativo del mondo dei videogiochi, ma che probabilmente non è neanche interessato a conoscerlo.

La sezione Games di Netflix nell’interfaccia per l’utente. Fonte foto:Netflix

Il settore dei videogame quindi, è in rapida crescita. Non solo come acquirenti di beni materiali come software o console, ma anche come persone che tramite internet decidono di associarsi, registrarsi, iscriversi in piattaforme di intrattenimento e scaricare i contenuti preferiti. A far aumentare ancor di più il numero di gamer e di abbonamenti è stata senza dubbio la pandemia. L’idea di dover trascorrere giornate intere a casa, ha avvicinato chi non conosceva i videogame a questo nuovo mondo. Grazie alla loro interattività, versatilità e adattabilità, hanno permesso a gente di ogni età di conoscere un nuovo modo di trascorrere il tempo libero, specie quando si era costretti a stare in casa nel rispetto delle norme anti-covid.

In questo contesto dunque, le multinazionali del settore hanno approfittato dell’impennata di utenti mettendosi a caccia di sponsor disposti a finanziare campagne pubblicitarie. Capire quali sono le esigenze dell’utente finale e anticipare le sue mosse permette, come spiega Chiarpenello, “di avere ottimi rendimenti intercettando i trend giusti. Questo mercato cambia rapidamente e premia chi lo anticipa o si adatta meglio”.