Al di là del Mediterraneo. Storie di salvezza nel mare dell’indifferenza

Oumar e Vito hanno storie diverse, ma una paura in comune: quella del mare. “Ad ogni onda tutto torna in mente”. La differenza è che Oumar in quel mare ha rischiato di rimanerci per sempre nel tentativo di cercare un futuro migliore. Mentre Vito in quelle stesse acque è riuscito a salvare la vita a ben 47 persone, tanto da essere ribattezzato il “pescatore di uomini”.

Parti opposte dello stesso fronte, o per meglio dire della stessa rotta: quella del Mediterraneo centrale, la più pericolosa al mondo per i migranti. Un vero e proprio cimitero – circa 26 mila morti inghiottiti dall’acqua in soli dieci anni – che continua a fare vittime anche a largo delle coste italiane. Eppure, in modo diverso, è proprio l’aver affrontato questo inferno da sopravvissuti ad aver dato a Oumar e Vito una speranza per ricominciare. Chi costruendosi una nuova vita da zero, chi riuscendo a smuovere le coscienze dall’indifferenza.

 

I numeri del dramma 

Dal 2014 a oggi sono oltre 55 mila le persone morte o scomparse nelle rotte migratorie di tutto il mondo, di cui la metà solo nel Mediterraneo. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), nel 2022 il tasso di mortalità nella rotta mediterranea è cresciuto dello 0,6% rispetto all’anno precedente, raggiungendo l’1,3%. Nonostante la pericolosità, questa rotta si è confermata come la più battuta dai migranti che tentano di raggiungere l’Europa. Al punto che gli sbarchi sulle coste dei paesi europei che affacciano sul Mar Mediterraneo, drasticamente diminuiti tra il 2014 e il 2020, hanno registrato una forte ripresa a partire dal 2021.

Numero di sbarchi in Italia tra gennaio 2014 e marzo 2023 

Fonte: elaborazione Agenzia ONU per i rifugiati di dati Unhcr

In effetti, stando ai dati elaborati dal Ministero dell’Interno, dal 1° gennaio al 10 marzo 2023 sono sbarcati in Italia 17.592 migranti, il triplo dei 5.976 migranti approdati sulle coste italiane nello stesso periodo del 2022 e delle 5.995 persone arrivate via mare nel 2021.  Solo tra gennaio e febbraio di quest’anno infatti i migranti sbarcati in Italia sono stati oltre 14.400. Un numero che riporta alla memoria le cifre dei primi mesi del 2017, uno degli anni record della crisi dei rifugiati in Europa, quando gli sbarchi si aggiravano a 13.500. E che testimonia una piena ripresa dei flussi migratori anche post pandemia. 

 

Gli sbarchi tra speranza e indolenza

In quasi un decennio nulla sembrerebbe essere davvero cambiato. E questo non solo in relazione al numero degli sbarchi, ma soprattutto alla gestione degli arrivi. Ne è convinto Vito Fiorino, il gelataio che la notte tra il 2 e il 3 ottobre 2013 si è imbattuto nei pressi della baia della Tabaccara, a largo di Lampedusa, in uno dei più grandi naufragi che la storia del nostro paese ricordi, soccorrendo con la sua barca quasi cinquanta migranti eritrei.

“Quando è successa la tragedia del 3 ottobre” racconta a Lumsanews “tutti i politici, compreso l’ex presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso, dissero «mai più una cosa di questo genere». Eppure, l’11 ottobre dello stesso anno è accaduta la stessa cosa tra Lampedusa e Malta. Adesso Steccato di Cutro”. “Stiamo parlando” continua ”di tre tragedie e praticamente di quasi 800 persone che potevano essere salvate ma sono state lasciate morire. Non è cambiato niente”. 

Un rimpallo di responsabilità, che, ora come dieci anni fa, ha intralciato il salvataggio di decine di rifugiati a poche centinaia di metri dai confini italiani e che non ha fatto altro che compromettere il rispetto e la dignità delle vittime, rimaste numeri senza nome. Neppure la solidarietà è riuscita a compensare anni di negligenza. E questo perché “in Italia – sottolinea Vito – non siamo capaci di accogliere davvero. Sono tante le realtà che promettono di assistere i migranti, ma troppo spesso ci si riduce solo a portare a casa soldi e arricchirsi. Per questo la mia missione è diventata portare questa storia nelle scuole e nelle associazioni, per smuovere il desiderio di aiutare le persone e non farle sentire di altri”.

 

Un problema chiamato accoglienza 

Che lo stato dell’arte dell’accoglienza in Italia fosse insufficiente lo riconosce anche chi di quel sistema fa attivamente parte, come Emanuele Selleri, direttore di Casa Scalabrini 634. “Il numero ingente di arrivi durante il pieno dell’emergenza sbarchi dal Nord Africa ha portato a galla una grandissima falla sulle strutture di prima e seconda accoglienza. Nel caso di Roma questo è coinciso con un momento di grande crisi, perché lo scoppio dell’inchiesta Mafia Capitale ha messo in luce varie realtà che lucravano anche sulla mala accoglienza”, spiega a Lumsanews.

Una situazione complessa, nella quale la congregazione degli scalabriniani ha deciso nel 2015 di inserirsi lì dove non c’era un investimento pubblico, promuovendo percorsi di cittadinanza, autonomia e integrazione con la comunità locale. Sono però tante le lacune che continuano a non essere colmate nei progetti di accoglienza dedicati alle persone immigrate, uno su tutti il supporto psicologico, “il vero grande tema – sottolinea Selleri – troppo spesso sottovalutato”.

I fatti parlano da soli. In Italia circa l’80% dei migranti sbarcati e ospitati nei centri di accoglienza soffre di sintomi da stress post-traumatico. “In generale i migranti quando arrivano in Italia vengono messi nei Cas, i centri di accoglienza straordinari. Strutture enormi, dove però purtroppo non ci sono né risorse né tempo né personale che si occupi in modo approfondito della salute mentale degli ospiti” ricorda a Lumsanews Serena Baroni, dottoranda in Mediazione linguistica e culturale presso l’Università di Bologna. “Servono strutture di supporto in grado di affrontare il problema, preferibilmente da un punto di vista etnopsicologico. Non è detto che il modello di cura occidentale possa essere applicato a persone che vengono dall’altra parte del mondo”.

Ricominciare dal mare

Malgrado le crepe, esistono storie che testimoniano come, dopotutto, sia possibile riempire i vuoti lasciati dal nostro sistema di accoglienza. Come quella di Oumar, 26 anni, partito dalla Guinea quando ne aveva solo 14 e arrivato in Italia appena maggiorenne. “Dopo aver peregrinato tra Algeria e Libia, ho deciso di affrontare il mio destino: o annegare in acqua o riuscire ad arrivare in un altro paese”, racconta a Lumsanews. “Non avevo mai visto prima d’ora il mare, se non nei libri di scuola. Non so nemmeno nuotare, è stato un incubo. Ma grazie alla nave di una Ong io e i miei compagni siamo stati salvati e siamo sbarcati a Lampedusa. Era il 20 settembre del 2015”. 

È qui che inizia l’avventura di Oumar nel territorio italiano, tra corsi di lingua e nuove amicizie nel centro di accoglienza di Rieti. Una dimensione di equilibrio, frantumata dopo sei mesi dal rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Così altro giro, altra corsa. Prima per un progetto in una cooperativa in Sicilia, rivelatosi un buco nell’acqua. Poi la spola tra Rieti, Grammichele e Foggia. “Ho lavorato come pastore nelle montagne del Lazio dormendo al freddo per terra ma non sono stato mai pagato. Non ho più avuto un posto dove stare. Così ho deciso di fare la stagione delle arance in Sicilia e quella dei pomodori in Puglia. Non avevo niente da perdere. Ed è qui che è arrivata la svolta”. 

Sì, perché grazie a un incontro fortuito a Borgo Mezzanone e all’aiuto della Caritas, Oumar è riuscito a ricostruirsi una nuova vita in una città dove il sole sorge e tramonta proprio sul mare. “Ad Ancona ho conseguito il diploma di terza media, fatto volontariato alla Croce Gialla e ottenuto il certificato da operatore socio sanitario. Ora vivo da solo e lavoro come Oss. Il segreto – dice – è non perdere mai il sorriso”. E a chi mostra solo pietismo ricorda: “Quando parlo del mio passato non è mai per essere commiserato, ma per dimostrare quanto sia importante fare qualcosa di utile per noi e per gli altri”. La stessa cosa che fanno Vito Fiorino, Casa Scalabrini 634 e le migliaia di volontari e professionisti nei centri di accoglienza. Perché, come ribadito più volte da Papa Francesco, “se si vuole amare non si può essere indifferenti”.