I desaparecidos nell’Egitto della rivoluzione tradita

Immagine in evidenza tratta dal rapporto dell’ECFR (Commissione egiziana per i Diritti e le Libertà)

Inchiesta a cura di Valerio del Conte e Giulia Torlone

Dalla Primavera Araba al regime di al-Sisi – Piazza Tahrir, oggi, è deserta. Poco o nulla è rimasto di quelle proteste della Primavera araba che investirono l’Egitto nel 2011 al grido di “Pane, libertà e giustizia sociale”.

Dal 2014 il clima politico che si respira non ha più nulla dei propositi della Rivoluzione di Piazza Tahrir. I processi sommari, la limitazione al diritto della libertà di espressione e associazione, sono giustificati dal governo come mezzi per la lotta al terrorismo. A farne le spese sono tutti coloro percepiti come attivisti: difensori dei diritti umani, avvocati, operatori di Ong locali, giornalisti. “La rivoluzione è morta a colpi di repressione”, dice a Lumsanews Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

Gli arresti e le sparizioni forzate – Nell’ultimo anno, il governo al-Sisi ha intensificato la sua attività di repressione, puntando contro la società civile indipendente e gli operatori dell’informazione. Noury spiega che “sotto Mubarak era più chiara la linea che non si doveva oltrepassare per finire nel mirino delle autorità; oggi è tutto più sfumato”. Un giro di vite senza precedenti, dove giornalisti e attivisti subiscono maltrattamenti e imputazioni per reati di terrorismo. Alcuni hanno ricevuto divieti di viaggio, congelamento di beni e sommari interrogatori.


La peculiarità degli ultimi diciotto mesi, però, è un nuovo modello di violazione dei diritti umani. In centinaia sono stati arbitrariamente arrestati o rapiti dalle loro case e sottoposti a periodi di sparizione forzata da parte di agenti statali. Alcune vittime sembrano essere state sottoposte a settimane o mesi di sparizione per fare pressione sulla famiglia, i cui membri erano stati presi di mira dalle autorità. Durante questi periodi di sparizione, i detenuti sono trattenuti in centri gestiti dalla Nsa (Agenzia Nazionale per la Sicurezza), ma senza essere inclusi nel registro ufficiale.

La Commissione Egiziana dei Diritti e delle Libertà di recente ha contato 544 casi di sparizioni forzate avvenute tra il 1° agosto 2015 e il 31 marzo 2016, e il numero tende a salire. Secondo la legge, il Pubblico Ministero ha l’obbligo di assicurare che i diritti dei detenuti siano garantiti, così come la protezione dalla tortura. Nella pratica però i pubblici ministeri sono accusati dalle Ong internazionali di coprire i periodi di sparizione forzata.

Lo schema tipico dei sequestri è la tortura e il maltrattamento al fine di estorcere confessioni da utilizzare in un futuro processo penale. In molti casi queste confessioni estorte vengono fatte trapelare dalla stampa per mostrare come il governo si stia impegnando contro il terrorismo. Noury aggiunge che le vittime di queste sparizioni riappaiono “quando va bene davanti ad un giudice che attesta che l’arresto è avvenuto 24 ore prima, quando va male vengono lasciate in qualche scarpata lungo il ciglio di una strada o sepolti da qualche parte”.

“Giulio è stato ucciso come un egiziano” – Con il lavoro di Amnesty International e dopo l’uccisione del ricercatore italiano Giulio Regeni, il velo inizia a squarciarsi. “Giulio è stato ucciso come un egiziano”, racconta la madre nella conferenza stampa organizzata alla Camera dei Deputati. Gli avvenimenti tra la sua sparizione e il ritrovamento del suo corpo rimangono un mistero. Noury fa notare che la vicenda di Giulio ha messo anche a nudo “l’ipocrisia e il cinismo di una politica estera che ignora l’aspetto dei diritti umani”. Regeni si sommerebbe a quelle vittime di sparizione e torture di cui, si stima, siano vittime ogni giorno 3 egiziani.

Il governo di al-Sisi respinge le accuse rivolte dalla Comunità internazionale. Non sorprende, dunque, che venga ancora smentito qualsiasi coinvolgimento nell’omicidio di Giulio Regeni.

Sarà anche stato ingenuo credere che il nostro sogno si sarebbe potuto avverare, ma non era da sciocchi credere che un altro mondo fosse possibile. Lo era per davvero. O, almeno, così me lo ricordo.” [1]

 

[1]  Alaa Abdel Fattah, blogger e attivista del Cairo, in carcere per aver manifestato nel 2011 contro Mubarak. Estratto da ‘I was terribly wrong’ – writers look back at the Arab spring five years on  The Guardian, 23 gennaio 2016