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HomeInchieste In carcere per un post: l’Arabia Saudita reprime il dissenso sui social media

In carcere per un post
L'Arabia Saudita reprime
il dissenso sui social media

Amnesty: 15 condanne dal 2022

Riad usa bot per promuoversi online

di Veronica Stigliani25 Settembre 2023
25 Settembre 2023

Foto di <a href="https://unsplash.com/it/@rami_alzayat?utm_source=unsplash&utm_medium=referral&utm_content=creditCopyText">Rami Al-zayat</a> su <a href="https://unsplash.com/it/foto/w33-zg-dNL4?utm_source=unsplash&utm_medium=referral&utm_content=creditCopyText">Unsplash</a>

In Arabia Saudita non serve manifestare apertamente contro il regime o pubblicare sui social contenuti critici nei confronti del governo per rischiare condanne di detenzione o addirittura di morte. È sufficiente seguire un attivista considerato scomodo da Riad, mettere mi piace ai suoi post, oppure retwittarli.

Secondo il Rapporto su Medio Oriente e Africa del Nord 2022-2023 di Amnesty International, nel periodo considerato “la Corte penale specializzata (Scc) ha emesso verdetti di colpevolezza nei confronti di almeno 15 individui, sia cittadini sauditi che stranieri, condannandoli a pene variabili dai 15 ai 45 anni di carcere al termine di processi gravemente irregolari, per il pacifico esercizio della loro libertà d’espressione o associazione, comprese pacifiche conversazioni online pubblicate su Twitter (ora X, ndr)”.

Il caso più recente è quello di Muhammad al-Ghamdi, insegnante saudita in pensione, condannato a morte il 10 luglio 2023 per le sue attività su X e YouTube. Secondo Human Rights Watch l’uomo era stato arrestato nel 2022 per “5 tweet che criticavano la corruzione e le violazioni dei diritti umani” in Arabia Saudita. Ma il verdetto accusa al-Ghamdi di terrorismo, in quella che per Hrw è una sentenza che “rappresenta un’escalation del giro di vite del governo saudita sulla libertà di espressione e sul dissenso politico pacifico nel Paese”.

Prima di lui anche Salma al-Shehab, dottoranda dell’Università di Leeds, era stata accusata di terrorismo, per cui è stata condannata a 27 anni di carcere seguiti da altrettanti di divieto di viaggio. Al centro del suo caso alcuni tweet a sostegno delle attiviste per i diritti delle donne.

Alcuni dei casi più importanti di repressione digitale in Arabia Saudita

La repressione digitale

Secondo Datareportal la rivoluzione digitale che ha attraversato il Paese, sostenuta da importanti investimenti nel settore della tecnologia, ha portato il numero di utenti sui social media a 29,1 milioni, pari al 79,3% della popolazione totale. Ma il potenziale di espansione della libertà di espressione derivato dal maggiore accesso a internet e dai nuovi mezzi a disposizione è stato in realtà profondamente compromesso da un’ulteriore stretta autoritaria da parte del governo, che ha ampliato il controllo sui cittadini anche nel mondo virtuale, per sua natura deterritorializzato. Quella operata da Riad è una vera e propria “repressione digitale” di carattere transnazionale, visto che si estende anche oltre i confini del Paese.

L’indice sulla libertà della Rete in Arabia Saudita realizzato da Freedom House nel 2021 inserisce Riad nella categoria dei paesi “non liberi”, assegnandole un punteggio di 24/100, calcolato in base a tre indicatori: gli ostacoli all’accesso a internet, le limitazioni ai contenuti online e le violazioni dei diritti degli utenti. Durante il periodo di riferimento, “le autorità hanno continuato a rimuovere in modo sproporzionato e opaco i contenuti e a sospendere gli account dei social media”.

I social più usati in Arabia Saudita. Dati pubblicati da Gmi, Ksa Social Media Statistics 2023

In parallelo all’attività di occultamento e repressione delle voci critiche al regime, l’Arabia Saudita porta avanti una campagna online finalizzata a promuovere le politiche del governo guidato dal Mohammed bin Salman, tramite la creazione di migliaia di profili falsi che postano contenuti favorevoli a Riad. Per farlo il Paese del Golfo si serve di veri e propri eserciti di troll e bot, noti come “mosche elettroniche”, nonché dell’astroturfing, ovvero la pratica di creare la falsa impressione che utenti legittimi stiano sostenendo spontaneamente una causa.

Secondo Abdullah Alaoudh, direttore del dipartimento di Ricerca sul Golfo di Democracy for the Arab World Now (Dawn), “dal punto di vista dei diritti umani la situazione in Arabia Saudita continua a peggiorare, a causa della centralizzazione del potere nelle mani di MbS, che controlla il sistema giudiziario e consente condanne a morte per dei post sui social. Non solo: gli stessi giudici rischiano di essere arrestati, come è successo in passato, perché non sono abbastanza duri nei loro pronunciamenti”. 

Dello stesso parere anche Maria Ilaria De Bonis, giornalista freelance esperta di missioni umanitarie di stampo cattolico, che sostiene che la repressione del dissenso online derivi dal timore della famiglia Al-Saud “che i social possano amplificare le critiche contro la monarchia e metterla in crisi”. Tuttavia, non si tratta di un fenomeno nuovo: “La repressione c’è sempre stata, ora è solo più agguerrita ed evidente”. Nonostante questo l’Italia mantiene rapporti politici ed economici con Riad, dimostrando di privilegiare “gli interessi commerciali con paesi ricchi di risorse, indipendentemente dal fatto che questi violino i diritti umani”.

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