Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Ansa

Realpolitik e compromessitra Italia e Arabia SauditaL'intervista a Jacopo Scita

Meloni conferma il filo-atlantismo Con la Cina soluzioni di compromesso

Le relazioni tra Italia e Arabia Saudita vanno inserite nel più ampio contesto geopolitico che, caratterizzato dalla competizione tra Stati Uniti e Cina, impone di cercare soluzioni di compromesso con paesi tra loro rivali. Il governo filo-atlantista di Giorgia Meloni non può recidere completamente i rapporti con Pechino né rinunciare agli scambi con paesi non democratici in nome della tutela dei diritti umani. Jacopo Scita, ricercatore e policy fellow al think tank Bourse and Bazaar Foundation specializzato in relazioni della Cina con i paesi del Medio Oriente, chiarisce per Lumsanews le dinamiche geopolitiche che sottendono gli accordi tra Roma e Riad.

Jacopo Scita, policy fellow alla Bourse and Bazaar Foundation

Cosa spinge Roma a coltivare in questo momento i rapporti economici (e non solo) con Riad?

“L’atlantismo del governo Meloni, evidente nella posizione presa in merito alla guerra in Ucraina e nei rapporti con la Cina, caratterizza anche le relazioni con l’Arabia Saudita. Quando i partiti ora al governo erano all’opposizione criticavano apertamente il governo saudita, anche cavalcando in maniera un po’ populista la diffusa ostilità nei confronti dei paesi islamici ma, una volta vinte le elezioni, hanno dovuto rivedere la loro posizione e ammorbidire i toni nei confronti di Riad. Roma ha aderito al corridoio economico tra India, Medio Oriente ed Europa firmato a margine del G20 di Nuova Delhi. Non per questo si può parlare di riallineamento visto che, tutto sommato, i rapporti di Roma con l’Arabia Saudita sono sempre stati abbastanza buoni. Nonostante le problematicità legate alla repressione del dissenso e dei diritti umani, l’Arabia Saudita rappresenta infatti per l’Italia un partner economico importante, sia dal punto di vista energetico sia in quanto potenziale importatore di prodotti italiani”. 

La posizione atlantista italiana ricalca la politica estera degli Stati Uniti anche per quanto riguarda i rapporti con la Cina?

“Inizialmente l’amministrazione Biden è stata molto critica nei confronti dell’Arabia Saudita, insistendo sulla questione dei diritti umani e della repressione della libertà di stampa, ma per ragioni di realpolitik ha dovuto rivedere le sue posizioni, a cui l’Italia ha certamente aderito. Nel contesto occidentale Roma ha rappresentato un caso quasi unico di Paese firmatario del Memorandum sulla Via della seta cinese, e nel considerare il ritiro dal progetto il governo Meloni ha dovuto vagliare la possibilità di ritorsioni da parte di Pechino. Quindi per evitare di rompere completamente i rapporti il ministro degli Esteri Antonio Tajani, quando si è recato in Cina, non ha confermato l’adesione alla Belt and Road Initiative (Bri) ma ha anche ribadito lo status di Pechino come partner di primo piano. Anche nel caso della Cina, come per l’Arabia Saudita, si opta dunque necessariamente per una scelta di compromesso e di bilanciamento delle relazioni”. 

E dal lato saudita che significato hanno gli accordi con l’Italia all’interno della politica estera perseguita da Riad?

“La strategia dell’Arabia Saudita è proprio quella di ‘tenere un piede in due scarpe’, mantenendo relazioni funzionanti con paesi tra loro rivali. Riad ha capito di avere il coltello dalla parte del manico: gli Stati Uniti e i partner europei non possono prescindere dal mantenere relazioni con il Golfo, dove anche la Cina riveste un ruolo di primaria importanza in quanto investitore e acquirente di petrolio. Pechino, poi, a differenza dell’Occidente è più permissiva in merito alle violazioni di diritti umani, optando per la non ingerenza. Gli Stati Uniti hanno a lungo faticato a comprendere e contrastare il posizionamento dell’Arabia Saudita, limitandosi a esercitare pressioni su Riad affinché riducesse i rapporti con la Cina. La scelta di promuovere un corridoio economico alternativo alla Via della seta – che però probabilmente sarà altrettanto difficile da realizzare – ha il vantaggio di spostare la competizione con Pechino sullo stesso piano, quello che prevede l’integrazione interregionale tramite la creazione di un imponente progetto infrastrutturale”. 

Quanto per l’Arabia Saudita stringere accordi con altri paesi è un modo per estendere su questi la propria influenza?

“L’Arabia Saudita, insieme ad altri paesi della regione come gli Emirati Arabi o il Qatar, sfrutta il potere derivato dall’essere un paese ricco di risorse per legittimarsi agli occhi dell’Occidente. L’esempio più eclatante è quello degli investimenti nel settore sportivo, con l’Arabia Saudita che ha acquistato calciatori europei e sudamericani e Doha che ha ospitato i mondiali del 2022. Si tratta di una delle tattiche più o meno lecite che puntano a condizionare positivamente l’opinione pubblica occidentale, presentando le monarchie del Golfo come virtuose. Il ruolo di questi attori rende difficile per gli stati occidentali, inclusa l’Italia, rinunciare alle relazioni con loro in nome dei diritti umani: ragioni economiche e di realpolitik finiscono per prevalere”.

Veronica Stigliani

Laureata in Relazioni Internazionali presso l’Università di Bologna nel 2019 con una tesi intitolata "States and non-state actors in the Middle East", collaboro con The Euro-Gulf Information Centre (EGIC), OSMED-Osservatorio sul Mediterraneo e La fionda.