Marco Di Liddo, analista senior e responsabile del desk Africa del Centro Studi Internazionali (Cesi), spiega a Lumsanews in che modo l’Europa può costruire solide partnership sul continente africano, alla luce degli ultimi sviluppi geopolitici.
Perché un gran numero di studenti africani che aspira a una professione altamente qualificata non riesce a realizzare questa ambizione?
“Parliamo di due ostacoli di natura strutturale, uno di tipo sociale e uno di tipo economico. Quello economico è che al momento la possibilità per i professionisti africani di trovare un lavoro nel proprio Paese di origine è più bassa perché la domanda di quelle professioni è molto bassa. Il modello economico del continente africano è in transizione, però non è ancora arrivato al punto di riuscire ad assorbire la forza lavoro altamente specializzata. Ad esempio sui grandi progetti finanziati dal capitale straniero o dal capitale della cooperazione, figure come ingegneri, project manager, direttori di dipartimento, molte volte appartengono alle aziende dello Stato di provenienza o alle organizzazioni internazionali. Quindi, 9 volte su 10 si tratta di personale non africano o non locale.”
Esistono altri ostacoli?
“Il secondo punto critico attiene purtroppo alla corruzione e al nepotismo, ancora molto diffusi in tanti Paesi africani e che quindi promuovono delle pratiche viziose. Cioè, a determinati posti di lavoro altamente professionalizzati o di chiara importanza dirigenziale o manageriale, si accede in base a logiche familiari o claniche, che si tratti di clan politici o di sangue.”
Progetti come il Piano Mattei e il Global Gateway sono la strada giusta per costruire un dialogo tra pari e per invertire questa tendenza dal punto di vista lavorativo?
“Il Global Gateway e il Piano Mattei sono iniziative positive, e lo saranno ancora di più se riusciranno a creare valore aggiunto sul territorio, ovvero fare in modo che quelle attività non abbiano soltanto un ritorno per l’economia e per la società italiana, ma che creino un mercato locale in cui aziende congiunte italo-africane o anche italiane possano operare in pianta stabile. In questo modo si crea qualcosa di diverso rispetto ad altri modelli, soprattutto a quello russo e a quello cinese, ma anche a quello dei Paesi arabi, che invece sono più di sfruttamento. La Turchia si sta muovendo intelligentemente in questa direzione, anche attraverso un uso estensivo di tutti quei dipartimenti umanitari del ministero degli Esteri e tramite anche quei dipartimenti della Mezzaluna Rossa che sono più vicini alla Turchia.”
Quindi anche attraverso assistenza e sussistenza alla popolazione?
“Non voglio usare i termini sussistenza e assistenza, perché questo è il vizio che va superato. Bisogna fare in modo che il mercato africano cominci a essere autosufficiente.”
Sono in corso diversi conflitti nel continente, ad esempio in Sudan. L’Europa dovrebbe impegnarsi in maniera più attiva per cercare di placare le tensioni?
“Un’attività più pervasiva da parte dell’Europa è necessaria, però dobbiamo essere anche consapevoli che le risorse non sono infinite. È vero che l’Europa non può impegnarsi allo stesso modo per risolvere la guerra in Ucraina, quella tra Israele e Hamas e il conflitto civile in Sudan, però dal punto di vista diplomatico in questo momento l’iniziativa è nelle mani di altri attori. In Sudan sono gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita e la Russia.”
Quanto è avanti la Cina nel controllo della regione?
“La Cina è presente in maniera estesa in oltre il 70 per cento del continente, con massicci investimenti esteri diretti e un’influenza politica discreta, ma profonda. I problemi dell’azione europea in Africa sono tanti, in primis il passato coloniale che non aiuta: molti dei Paesi europei vengono ancora percepiti come attori che promuovono politiche di sudditanza dei Paesi africani, cosa che invece non accade per esempio nei confronti della Russia o della Cina, le cui diplomazie sono state più abili nel tempo a promuovere un’immagine diversa.
C’è un gap troppo elevato tra Europa e Cina?
Se l’Europa sceglierà la politica della promozione della società civile e dei diritti, dovrà fare delle azioni profonde per spingere i governi a rispettare quei patti, anche attraverso sanzioni pesanti. Ma se i competitor come la Cina, senza quei vincoli, riescono ad offrire di più dell’Europa, allora la partita è persa in partenza.”