In Sudan, la guerra civile prosegue incessantemente da due anni mentre la diplomazia è stretta tra il capriccio personale di due generali assetati di potere e l’inazione della comunità internazionale che non riesce a mediare un accordo di pace. Riassume così il quadro attuale della situazione sudanese Irene Panozzo, ex consigliera del Rappresentante speciale dell’Unione europea per il Corno d’Africa e ora consulente politica, che in un’intervista a Lumsanews fa il punto sugli ultimi sviluppi del conflitto.

Dottoressa Panozzo, la guerra civile in Sudan coinvolge diverse forze paramilitari. Proviamo a fare un po’ di chiarezza
“È una cosa estremamente complessa e variegata perché, oltre all’esercito regolare sudanese (Saf) e ai paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), ci sono una miriade di altre milizie private. In particolare i gruppi armati africani e una serie di forze estreme del Darfur, che sono quelle che stanno combattendo sul terreno. Si tratta di alleanze il più delle volte nate per motivi strettamente pragmatici che riflettono le dinamiche della vecchia guerra dell’Apartheid del 2003 in Darfur”.
E invece le Rsf?
“Le Rsf sono state, fino al giorno dell’inizio della guerra, parte integrante dell’architettura di sicurezza del Sudan, perché così era stato deciso dall’ex presidente Omar al Bashir, che le aveva create nel 2013 come una sorta di forza pretoriana per difendere il suo regime, mettendo insieme vari gruppi che nel decennio precedente erano conosciuti come Janjaweed, milizie su base etnica per lo più araba, create in Darfur durante la guerra che iniziò nel 2003”.
Come incide sul conflitto la presenza di diversi gruppi etnici?
“In tutto il Paese, compreso il Darfur, non c’è una situazione di bianco e nero. Questa è una guerra a livello nazionale, che coinvolge di fatto tutto il Sudan, riattivando una serie di conflitti locali che c’erano già prima. In gran parte dei combattimenti, la capacità dell’esercito regolare sudanese di recuperare Khartum e altri territori dall’inizio dell’anno è legata al fatto che c’erano altri gruppi armati che combattevano con loro”.
In questa situazione c’è spazio per la diplomazia?
“Negli ultimi mesi, l’amministrazione americana del presidente Trump ha cercato di riavviare una discussione, bypassando le due parti sudanesi per parlare direttamente con i Paesi della regione più coinvolti, in particolare Egitto, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Ma anche questo è stato difficilissimo”.
Secondo lei funzionerà?
“Due settimane fa c’è stato finalmente un primo vero spiraglio, non direi un passo avanti enorme, ma un piccolo seme: un comunicato stampa congiunto, firmato da Stati Uniti, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, che sostanzialmente mette giù una serie di deadline per avviare un processo negoziale. Bisogna vedere se poi verrà attuato”.